L’utopia di Riace

Web-reportage realizzato per Corriere della Sera 

Quando Bahram Acar è sbarcato alla marina di Riace alle quattro del mattino di un’estate nel 1998, non si sarebbe mai immaginato che ci avrebbe passato il resto della sua vita. Arrivato insieme ad un gruppo di circa altri duecento curdi con una barca di 35 metri partita da Istanbul, è oggi l’unico di quel nutrito gruppo di migranti che ancora risiede nella cittadina. “Gli altri sono partiti per le destinazioni più diverse, soprattutto al Nord Europa, dove le condizioni per i rifugiati politici sono più semplici che in Italia. Ma io volevo lavorare…” racconta Bahram “…e a Riace ho trovato un luogo famigliare. Queste montagne mi ricordano il Kurdistan e ho deciso di restare. Ho fatto qualsiasi lavoro mi si presentasse: carpentiere, fabbro, muratore. La gente a Riace mi ha aiutato moltissimo, soprattutto Domenico Luciano, che ha sempre avuto molto a cuore la causa di noi curdi.” 

Secondo Domenico Luciano, sindaco della città da tre mandati, lo sbarco del 1998 ha avuto un significato profondo per la cittadina. Fino a quel momento il paesello calabrese situato nella zona più meridionale della costa ionica, aveva conosciuto soltanto i flussi migratori in uscita, con i paesani che migravano per andare a lavorare nelle industrie del nord. “Quella barca nel 1998 ha incontrato una comunità con un destino segnato” racconta il sindaco. “Le case erano vuote e l’economia locale era paralizzata. Con un gruppo di amici e compagni di molte battaglie politiche e sociali abbiamo deciso di formare una giunta per trasformare Riace nella città dell’accoglienza, basata sugli stessi valori della cultura locale, incontaminata dal capitalismo e dal consumismo. Una cultura dell’ospitalità, che trova sempre il modo e gli spazi per accogliere dei forestieri”.

Una salita di otto chilometri attraverso colline a coltivazione d’olivo porta dalla marina alla città vecchia, alle cui porte le oltre venti nazionalità dei migranti che fanno ora parte della comunità paesana sono elencate in un cartello stradale. Tra queste è compreso anche il Kurdistan, la terra natale di Bahram Acar, il cui popolo senza stato è diviso tra quattro nazioni, mantenendo nel tempo una profonda coesione culturale. Dei circa 1800 attuali abitanti di Riace, ben 400 sono stranieri, molti dei quali hanno trovato casa e lavoro grazie ad un programma di finanziamento del governo italiano che dura ormai da dieci anni e consta in 30 euro giornalieri per ogni persona accolta. Per far si che i soldi vengano spesi all’interno della comunità paesana, ai migranti non vengono dati dei soldi bensì dei bonus, che si possono spendere solamente a Riace. In questo modo l’anestetizzata economia della cittadina è lentamente tornata a girare.

Hare Gu, 30 anni, ha trovato occupazione in un laboratorio di vetro e rame, uno dei cinque laboratori che fanno parte del programma del ministero. “Sono arrivata in Italia nel 2013 dall’Eritrea e lavoro qui da circa sette mesi. Temevo i militari nel mio paese e ho deciso di partire da sola verso l’Europa”. Il viaggio attraverso il Mediterraneo le è costato 2000 euro, che si aggiungono ai 1000 euro spesi per viaggiare dal Sudan alla Libia attraverso il deserto, a bordo di un furgone con qualche centinaio di altri migranti. “Qualcuno ha pagato per me e ora sto cercando piano piano di ripagare, anche se parte dei 600 euro mensili che guadagno qui lo mando a mio figlio, che al momento vive in Etiopia con mia sorella. Sto cercando in tutti i modi di farlo arrivare qui. Pensavo che in Italia sarei riuscita a guadagnare dei soldi molto più velocemente, ma la situazione è per converso molto difficile. Fintanto che posso lavorare sono felice di essere a Riace.” Al laboratorio Hare Gu fa tandem con Maria, una dei 65 cittadini locali che hanno trovato lavoro nell’artigianato, nell’educazione e nell’edilizia grazie al progetto di accoglienza. Al contrario di molti suoi coetanei, che si sono accasati altrove in cerca di maggiori opportunità, Maria ha avuto la fortuna di poter rimanere in paese. “Imparo delle cose ogni giorno lavorando con Hare Gu. Finché non si sentono storie come la sua è davvero difficile mettersi nei panni di queste persone che lasciano casa e famiglia per cercare una vita migliore, senza sapere cosa davvero troveranno”.

Anche Jean, 26 anni, camerunense, è arrivato in Italia alla ricerca di lavoro. “Per molti anni ho lavorato nel settore edile in Libia”, racconta, “ma ad un certo punto il mio capo non riusciva più a pagarmi e ha deciso di regalarmi questo viaggio verso l’Italia per riconoscenza. Una notte sono stato bendato e ho viaggiato in una macchina per circa due ore. Quando sono sceso ho sentito la sabbia sotto ai miei piedi. Quando mi hanno tolto la benda stavo già su un barcone, insieme ad altre 300 persone, in un viaggio durato tre giorni terminato in Sicilia. Dopo due giorni dal nostro arrivo mi hanno portato a Riace insieme ad altri quindici camerunensi. Ora sto aspettando che la commissione esamini la mia richiesta di ottenere un permesso di soggiorno definitivo. Mi piace molto questa cittadina, ma in questo momento non riesco a trovare lavoro e non so se potrò rimanere.”

La maggior parte dei migranti si sono integrati bene a Riace. C’è chi si prende cura dei fiori e delle piante del centro storico, chi fa la raccolta differenziata con un carretto trainato da un asino, chi sta ripristinando una valle abbandonata per farne un allevamento per animali e chi si prende cura della pulizia della spiaggia di Riace marina. Nessuno tra gli anziani ha mai avuto alcun problema con loro, anche se c’è chi si preoccupa però che un giorno il loro numero potrebbe superare quello della gente locale e non vede di buon occhio questa eventualità. C’è però anche chi grazie ai migranti ha trovato braccia da lavoro che non erano più disponibili tra la popolazione locale, come Luigi Santa Croce, un signore di 70 anni, che ogni anno chiama due tre di loro per la raccolta delle olive delle sue cento piante, pagandoli in cibo e denaro.

A chi risponde che il progetto di accoglienza ha sfavorito il turismo, il sindaco risponde che al contrario il progetto di accoglienza ha attratto un turismo diverso e cioè quello delle persone interessate alla società multietnica. “Questo è ciò di più interessante che Riace può offrire” racconta Domenica Luciano. “Non abbiamo monumenti, i bronzi che sono stati ritrovati nel 19.. si trovano ora a Reggio Calabria, ma neppure nel periodo successivo al loro ritrovamento il turismo era aumentato. La nostra terra è a vocazione agricola e zootecnica. Il turismo deve essere complementare a questa sua identità. Non può una comunità aspettare gli altri per sopravvivere, assumendo uno stile di vita artificiale. E poi, perché i turisti devono essere necessariamente biondi? A Riace possono essere anche neri. Siamo orgogliosi di praticare il turismo dell’accoglienza. Personalmente sono fiero di poter cavalcare questo sogno. La vera accoglienze è in ognuno di noi ed è su questo vanno costruite le città del futuro.” 

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