Tre anni dopo il sisma la gente trema ancora

Scritto per LEFT, 27 Aprile 2018. Sedevano davanti alla televisione, Manis e Asok,
quando la terra ha iniziato a tremare e il soffitto di casa loro è ceduto
all’improvviso. Di corsa sono fuggiti per strada per non rimanere intrappolati
tra le macerie, mentre le abitazioni tutt’intorno crollavano l’una dopo
l’altra. In quel terribile 25 Aprile, il giorno più triste della travagliata
storia della giovane Repubblica Federale del Nepal, un sisma di magnitude 7.8
spazzava via interi paesi e abbatteva oltre mezzo milione di case, uccidendo 9.000
persone. Tre anni dopo, il villaggio di Manis e Asok, Dharmastali, è un
cantiere aperto, dove nuove abitazioni in cemento si alternano a rifugi
temporanei in lamiera. La maggior parte dei negozi del villaggio ha
riaperto sotto forma di baracche sostenute da pali in bambù. Per le strade
uomini e donne insieme trasportano rocce, rompono pietre, aiutati dai loro
figli di ogni età. Prima del sisma, le case in stile tradizionale newari
di Dharmastali rappresentavano un vanto per la popolazione, caratteristiche per
gli unici intagli in legno e le costruzioni in mattoni rossi, belle come quelle
delle città di Patan e di Bhaktapur, gioielli architettonici storici della
valle di Kathmandu. Il 25 Aprile del 2015, il terremoto le ha ridotte in macerie.
Il sisma, ampiamente previsto dai geologi internazionali, ha colpito un paese
del tutto impreparato a gestire una calamità di queste dimensioni, dopo oltre
vent’anni di instabilità politica. L’insurrezione maoista degli anni Novanta ha
portato il paese alla guerra civile e da allora si sono succeduti venti governi
diversi, sotto tre differenti sistemi costituzionali. Dal 2008 un sistema
di Repubblica federale ha rimpiazzato una monarchia che oggi compirebbe 250
anni, data della creazione del Regno del Nepal nel 1768. Da Febbraio il paese è
guidato da Khadga Prasad Sharma Oil, leader rivoluzionario comunista con un
record di 14 anni di prigione in passato. La transizione politica ha reso
caotica la gestione delle attività di salvataggio e supporto alla popolazione
gestita dal governo. Circa 4 milioni di euro sono stati raccolti dalla comunità
internazionale, dei 7 milioni inizialmente calcolati dal governo nepalese per
le ricostruzioni e oggi considerati insufficienti. In questo periodo soltanto
il 15% delle case sono state ricostruite sotto la gestione dell’Autorità di
Ricostruzione, che ha fallito miseramente nel compito di coordinare il governo
e i donatori. “Chi aveva un terreno a disposizione ha potuto ricostruire
con gli incentivi dello stato” racconta ancora Manis passeggiando tra un
cantiere e l’altro a Dharmastali. “Chi invece non possedeva una casa o non
aveva più i documenti di proprietà della stessa, si è visto negato il permesso
di costruzione.” Manis ha aspettato per un anno i fondi del governo, prima
di costruire insieme al padre e al fratello una nuova abitazione sulle ceneri
di quella vecchia. I suoi amici nella casa di fronte vivono in tenda e stanno
cominciando soltanto ora a ricostruire la loro casa. Manis mi racconta di come
la maggior parte della gente non fosse consapevole dei propri diritti dopo il
sisma e non sapesse nemmeno come richiedere le compensazioni per la
ricostruzione.  Laxmi Nakashmi, una signora di 60 anni del villaggio, ha
dovuto costruire la sua nuova casa nel terreno che prima usava come orto,
privandosi quindi della sua prima forma di sussistenza. “Ho vissuto in
tenda per circa due anni per evitare di rinunciare al piccolo appezzamento
agricolo” mi racconta. “La notte spesso arrivavano serpenti, così ho dovuto
indebitarmi per costruirmi una nuova casa”. Vedova da 5 anni, Laxmi vive in
condizioni di estrema povertà con un debito da pagare. Sono migliaia le persone
che ancora attendono di ricostruirsi la propria abitazione per tornare a una
vita normale. Meno di un terzo dei fondi raccolti sono stati distribuiti alle
famiglie che li richiedevano. Le gerarchie sociali radicate nel paese hanno
favorito la distribuzione ineguale dei fondi per le ricostruzioni,
concentrandosi a favorire alcune comunità e regioni specifiche, trascurando le
comunità al margine e amplificando di conseguenza le già enormi ineguaglianze
economiche tra i diversi segmenti della popolazione. I lavori di ricostruzione
si sono concentrati in particolare nel distretto Gorkha e nella
capitale, volti a ricostruire le aree del centro storico polverizzate dal
sisma, come piazza Durbar, altro gioiello di architettura Newari. Ma i
lavori in corso su grandi aree della capitale, uniti all’inquinamento
crescente, stanno minacciando la qualità dell’aria, e di conseguenza della
vita, per la cittadinanza di Kathmandu, colpendo in parte anche l’industria del
turismo. Anche in Nepal, come in diversi altri paesi colpiti da calamità
naturali, l’industria della ricostruzione ha favorito l’insinuarsi di una forma
di “capitalismo del disastro”, volto a sfruttare gli investimenti in arrivo,
seguendo il mantra della Banca Mondiale di “ricostruire il paese meglio”,
favorendo di fatto pratiche di neo-liberalizzazione di ogni aspetto della
società nepalese, attivate dallo stato, dalle ONG e da altre forze
geo-economiche. Tre anni dopo il terremoto, il Nepal è ancora un paese in
ginocchio, i fondi per le ricostruzioni finora usati in maniera inefficace non
serviranno ad aiutare le migliaia di persone  che vivono in alloggi
temporanei e che sono costrette, ancora una volta, a cavarsela da soli, senza
avere le risorse per farlo.

Il reportage è stato
realizzato con il supporto di Women for Freedom e Women for Human Rights (WHR),
organizzazioni attive nel supporto alle vedove in pepal, vittime del terremoto
e del conflitto.

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