Tra i ragazzi di Isfahan, in piazza metà del mondo

Scritto per Origami, La Stampa

La coppia che dolcemente amoreggiava appoggiata al finestrino di un autobus diretto a Teheran,  attraverso le foreste e le montagne verdeggianti della regione dell’Azerbaijan, non era certamente la prima immagine che mi aspettavo di vedere in Iran. Ma viaggiando via terra attraverso il paese, dopo aver attraversato il confine settentrionale di Astara, ogni stereotipo e possibile orientalismo sul paese lasciavano spazio a una seria continua di sorprese. Una di quelle prime sere nella capitale trovai ospitalità a casa di Zakaria, un ragazzo trentenne, che per qualche anno aveva avuto la fortuna di vivere in Polonia, grazie ad un programma di scambio internazionale. Tornato a Teheran, nel giro di qualche mese aveva creato una start-up che aiutava gli studenti iraniani a trovare finanziamenti per studiare in altre parti del mondo. ll suo ufficio era uno spaccato interessante della realtà giovanile del paese, essendo frequentato da ragazzi e ragazze che per motivi diversi cercavano la giusta opportunità per lasciare il paese. Dalla rivoluzione islamica del ’79, centinaia di migliaia di cittadini iraniani con un alto livello di scolarizzazione sono emigrati in Europa e in Nord America, in quella che è considerata una delle più massicce fughe di cervelli al mondo. La situazione è diventata tragica sotto il governo Ahmadinejad, con circa 150.000 persone che lasciavano il paese ogni anno e altrettanti che cercavano il modo per farlo. Uno di questi era Mohammed, ventiduenne studente di ingegneria all’università di Teheran, che cercava una borsa di studio per studiare in Germania. Si diceva preoccupato per l’immagine che il mondo aveva del suo paese ed era convinto che l’Iran post-rivoluzionario si fosse perso da qualche parte nella storia. “A fare fortuna sono soltanto gli imprenditori senza scrupoli e vicini al potere. Ai giovani non è rimasta altra possibilità che andarsene” raccontava. Zakaria invece a Teheran se la passava bene. Amava la sua città. Aveva un appartamento tutto per sé nei quartieri più borghesi del nord, amava divertirsi, parlare di donne e bere alcolici nei week-end. Lo conobbi grazie a Couch Surfing, un social network che permette ad un viaggiatore di chiedere ospitalità alle genti del posto. Rimasi con lui un paio di giorni. Una di quelle sere uscimmo con una sua amica, Fozhan, che si presentò con un paio di blu jeans attillati e una maglietta che le teneva scoperta la pancia. Il suo naso era visibilmente rifatto dalla chirurgia plastica, una pratica che era molto comune nel paese. Per anni aveva sognato di fare la giornalista, ma al suo primo impiego in un giornale s’era trovata obbligata a scrivere storie dai toni propagandistici e aveva preferito mollare tutto. Lasciarsi assoggettare alle norme del paese era l’ultimo dei suoi desideri. “Sono stata arrestata una decina di volte per aver esagerato nel trucco o per aver guidato senza portare il velo” mi raccontava quasi per farsene un vanto. “Talvolta però i pasdaran anziché arrestarmi mi chiedevano il numero di telefono…” Quella sera mi accompagnò in un quartiere particolare, dove i giovani giravano per ore in auto, su e giù per lo stesso viale, per adocchiarsi attraverso i finestrini ed eventualmente scambiarsi i numeri di telefono, per incontrarsi nei giorni a venire. Con quell’immagine lasciai Teheran per viaggiare per 450 chilometri più a sud verso Isfahan, vecchia capitale della Persia ai tempi della dinastia dei Safavidi, artefici degli splendidi edifici di quella che oggi viene chiamata la “piazza dell’imam”, ma che un tempo veniva definita la “piazza metà del mondo”, per le sue colossali dimensioni. I venditori di tappeti delle botteghe intorno alla piazza rimpiangevano i fasti del passato. Reza, un ragazzo di 26 anni che faceva quel lavoro fin da quanto era bambino, comprando i tappeti direttamente dalle tribù nomadi del Ghashghai e del Baluchistan, si lamentava delle propaganda negativa che il suo paese aveva subito negli ultimi anni, portando al minimo il volume degli affari con l’estero. Si augurava che con la rimozione delle sanzioni internazionali, le cose sarebbero andate meglio. A Esfahan trovai ospitalità a casa di Mehdi, 27 anni, insegnante d’inglese, conosciuto sempre grazie a Couch Surfing. Più di ogni altra persona incontrata fino ad allora, Kourosh sembrava avercela a morte con il regime. “Sono incazzato” mi raccontava, mentre ce ne andavamo a spasso per un parco ai piedi delle montagne di Zagros. “A causa della merda in cui viviamo ci stiamo fottendo il cervello. Siamo depressi. Troppi miei amici vivono all’interno di realtà disgraziate e hanno una visione estremamente distorta delle loro vite. Alcuni di loro hanno addirittura pensato di ammazzarsi.” Secondo Mehdi, il problema dei giovani era il gap culturale con la generazione dei loro padri, nonché il contrasto tra la realtà del mondo esterno, che passava attraverso i mezzi di informazione, e la quotidianità all’interno della Repubblica islamica. Mehdi amava la storia e la cultura del suo paese. Fu lui a consigliarmi di viaggiare verso Yazd, una città millenaria, costruita ai piedi del monte Shir Kuh, dove s’incontravano i deserti Dasht-e Kavir e il Dasht-e Lut. I muri delle case e dei palazzi erano fatti di un composito di paglia, sabbia e fango essiccati al sole. A Yazd vivevano circa 423.000 persone, la maggior parte delle quali impiegate nel settore tessile e nel mercato della seta. Sotto la dinastia Sassanide la città divenne uno dei più importanti centri della religione zoroastriana: la religione monoteista del dio creatore Ahura Mazda, che si basava nel dualismo tra lo spirito del bene e lo spirito del male, generatori di un conflitto cosmico che riguardava l’intera umanità. “Buoni pensieri, buone parole, buone opere” era lo slogan che riassumeva la condotta da seguire per i devoti di questa religione, che prima della conquista araba e dell’avvento dell’islam era la più diffusa in territorio persiano. Dimenticate dalla storia e senza alcuna struttura turistica a circondarle, a Yazd si trovavano le torri del silenzio, montagne artificiali costruite in antichità dai seguaci di Zarathustra per deporre i cadaveri dei defunti fedeli. I rituali funerari della religione zoroastriana si concentravano sul viaggio dell’anima, che secondo le credenze lasciava il corpo tre giorni dopo il decesso. Quando l’anima lasciava il corpo, quest’ultimo veniva considerato impuro. Ecco che i cadaveri non venivano né cremati, né sepolti, perché sia il fuoco che la terra erano considerati elementi sacri, che non avrebbero dovuto sfiorare nulla d’impuro. I cadaveri venivano così piazzati in cima alle torri, dove venivano piano piano consumati dagli avvoltoi. Lungo le mie esplorazioni a Yazd conobbi un signore che si fermò quasi illuminato, quando mi vide apparire dinanzi alla strada che stava percorrendo. Toccò la mia barba e disse: “Bene. La barba fa molto bene al corpo.” Sorrise e continuò per il suo cammino. Poco più tardi, camminando per le strade della città vecchia, incontrai un tizio sulla quarantina che prendeva a calci la sua macchina chiamandola “Bush” e “Ahmadinejad”, per insultarla nella maniera appropriata. Quando finalmente il motore della sua carcassa ricominciò a borbottare, m’invitò a cena insieme a una sua vecchia amante e ad un’amica di lei. Per un paio d’ore li accompagnai verso la periferia della città per un picnic notturno, consumato all’interno dell’auto, su delle improvvisate vaschette di plastica. L’obbligo del servizio militare li aveva divisi e lei non lo aveva atteso: s’era sposata con un altro uomo. E così ogni tanto s’incontravano in segreto, nell’auto di lui, parlavano, si scambiavano qualche sguardo, dolcemente si sfioravano le mani. Sfruttai l’occasione per farmi accompagnare alla stazione degli autobus per prendere un autobus verso Shiraz. Appoggiai la testa esausto e mi risvegliai l’indomani a destinazione. Mentre prendevo un caffè mi si avvicinarono due ragazzi dalla pelle scura, originari del Baluchistan, la zona più orientale del paese, che sconfinava con il Pakistan e l’Afghanistan. “Ci siamo trasferiti a Shiraz per studiare” mi raccontava Gazzi, un ragazzo ventiduenne di Chabahar. “Da noi non c’é nulla da fare. Non c’è lavoro. A Shiraz ci sono maggiori opportunità, inoltre la gente è molto meno religiosa rispetto al resto del paese”. Di fatto, per le strade di Shiraz, si respirava davvero un’altra atmosfera rispetto al grigiore delle strade di Teheran, all’aria pesante della benzina trattata in fretta, agli onnipresenti striscioni della rivoluzione, al volto fermo e risoluto dell’ayatollah Khomeini che ci osservava dalle gigantografie presenti in ogni angolo della metropoli. A Shiraz tutto scorreva ad un ritmo molto più rilassato. La gente per le strade era molto simpatica e accogliente. Molte ragazze portavano copricapi colorati e del trucco molto marcato. Elham, una giovane tennista che conobbi quel giorno andando a comprare il pane, mi invitò ad andare con lei ad una festa quella sera stessa. Portava un velo scuro e un lungo cappotto quando ci incontrammo, ma una volta arrivati alla festa si cambiò le scarpe, mise del rossetto sgargiante sulle labbra e cominciò a ballare scatenata al ritmo di musica elettronica. L’indomani mi portò a visitare la tomba del poeta Hafez, il luogo più rispettato e visitato della città e mi fece parlare con un astrologo che leggeva il futuro attraverso i testi del poeta. Da Shiraz mi spostai poi di 300 km ad Ovest, verso Busher, la città principale del golfo persico. Vagabondando a casaccio per i viottoli dell’affascinante cittadina, mi ritrovai dinanzi ad una moschea gremita di persone. Un signore mi fece cenno d’entrare. Erano in corso i preparativi per la celebrazione del martirio dell’imam Reza, l’ottavo tra i dodici imam venerati dallo sciismo duodecimano, la religione ufficiale dell’Iran. Qualche ora dopo, con una rullata di tamburi, la cerimonia entrò nel vivo. Ci furono una serie di preghiere e sermoni. Poi gli uomini, disposti a cerchio, cominciarono a battere con veemenza la propria mano destra contro al loro petto, infervorati di spirito, per sentire sulla loro pelle la sofferenza patita dal martire imam Reza. Ad un certo punto il cerchio si sciolse, per trasformarsi in una processione che girava tutto intorno alla moschea, guidata da un gruppo di giovani esaltati che saltavano e cantavano  brandendo le immagini dell’imam Hossein, nipote di Maometto e terzo imam dello sciismo. La cerimonia terminò soltanto al calare del sole e il mio viaggio riprese l’indomani, attraverso chilometri e chilometri di terra brulla e montagne rocciose, intervallati da alcune delle più grandi raffinerie di petrolio del paese, nella strada che portava, 720 chilometri più a sud, al porto di Bandar Abbas. Estremamente diversi erano i volti della gente, i colori degli abiti e l’atmosfera che si respirava in questo estremo meridionale del paese che sembrava un pezzo d’Africa. Viaggiai per le straordinarie isole di Queshm e Hormoz, teatro di paesaggi straordinari, di laghi di sabbia, di vecchi vulcani estinti dai colori che svariavano dall’azzurro al magenta e si fondevano a lunghe lande rocciose e desertiche. Mi avventurai verso il Sud-Est del paese, a Zahedan, la capitale della regione del Sistan-Baluchistan, famosa più per il contrabbando di oppiacei dall’Afghanistan che per qualsiasi altra cosa. Proprio per questo motivo, il primo poliziotto che mi vide girare per la città, mi prese sotto custodia e mi obbligò a lasciare la regione. Tornai a Shiraz e abbandonai l’Iran qualche giorno dopo. Tornai l’anno seguente, nel Marzo del 2014, quando al governo c’era Rouhani e i ragazzi più giovani s’auguravano che il nuovo corso potesse portare quel cambiamento da molti agognato.Ma in Iran, ogni trasformazione aveva bisogno di tempo. Dopo un viaggio nella regione del Khorassan e qualche settimana spesa ad esplorare la bellezza del Kurdistan iraniano, incontrai un trentenne di nome Amirali ad Ahwaz, capitale della regione del Khuzestan. Era appena tornato a vivere nel suo paese dopo aver studiato per anni negli Stati Uniti. “La democrazia è una parola che assume connotati diversi se riferita al contesto iraniano e americano” mi raccontava. “Credo che noi iraniani non possiamo cambiare tutto in un giorno. Stiamo già imparando a vivere diversamente, ma la maggior parte della popolazione del nostro paese vive ancora isolata e non ha ancora accesso all’educazione. La cultura deve cambiare poco a poco, passo dopo passo e forse, a questo punto, siamo davvero sulla strada giusta.”


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