Tra Grecia e Turchia: l’odissea dei rifugiati

Scritto per Il Reportage, Ottobre 2015

“A un certo punto ci siamo accorti che da un piccolo foro in fondo alla barca entrava acqua. Con le mani abbiamo provato a svuotarla e chiudere la falla, mentre uno di noi cercava aiuto tentando di chiamare la guardia costiera. Alla fine grazie a Dio siamo riusciti a raggiungere la costa da soli.” Chi parla è Manzir, siriano di origine palestinese, poche ore dopo essere sbarcato sull’isola greca di Chios con una cinquantina di altri profughi siriani. “Siamo sopravvissuti per miracolo”, aggiunge, mentre tira fuori il passaporto da un sacchetto di plastica che lo proteggeva dall’acqua e lo consegna alle autorità dell’ufficio di identificazione. Insieme a lui sono arrivati il padre, la madre e due fratelli, mentre il terzo vive già in Germania, dove la famiglia ha intenzione di viaggiare per richiedere asilo politico. Nella stessa barca gonfiabile ha viaggiato anche Firas, 43 anni, siriano, insieme alla moglie e i suoi tre figli. “E’ la terza volta che proviamo ad attraversare questo lembo di mare: è come un sogno per noi essere arrivati finalmente qui. Il mio più grande desiderio è di poter offrire un’educazione dignitosa ai miei figli. Non posso farli crescere in questa Siria dilaniata dalla guerra”. Firas le ha provate un po’ tutte prima di mettersi in mare, dopo che il suo villaggio natale è stato raso al suolo nel 2013. Ha cercato lavoro in Libano, poi in Egitto e infine in Turchia, sostenuto dai contributi economici del fratello, che vive e lavora negli Stati Uniti.Quelle sei miglia di mare che qualsiasi cittadino europeo o turco può percorrere in 45 minuti di traghetto, spendendo 24 euro, costano 1200 euro a persona per questi sfollati in fuga dalla guerra: un business a cifre altissime che giova solamente ai trafficanti delle coste anatoliche dell’Egeo. Firas ne ha spesi 6000 per portare tutta la sua famiglia nell’isole e sa di essere un privilegiato rispetto a certi suoi compagni di viaggio, che hanno speso tutto quello che avevano pur di varcare la soglia della fortezza Europa. Dall’altra sponda di questo confine di onde e di guardie costiere, a Smirne, in Turchia, ci sono centinaia di profughi siriani e iracheni che la Grecia la stanno sognando ancora. Sistemano i loro possedimenti dentro a dei sacchetti neri, inclusi i giubbetti di salvataggio che sono in vendita in uno dei vicoli dietro a piazza Basmane, luogo in cui i contrabbandieri turchi offrono il loro “aiuto” a chi brama di raggiungere l’Europa il prima possibile. Uomini, donne e bambini, in attesa di un “Yalla” che significhi finalmente partire. “Non abbiamo paura” raccontano tre ragazzi di Baghdad in procinto di partire. “Abbiamo visto il peggio possibile nel nostro paese e ora siamo pronti a tutto.” Tre giorni fa la polizia turca li ha arrestati mentre raggiungevano il luogo di partenza della barca. “I gendarmi ci hanno rubato il telefono e pure le sigarette” racconta uno di loro “ma ci auguriamo di poter ripartire stanotte. Ci proverei altre mille volte.”Anche Alaa, 26 anni, siriano, sta per imbarcarsi per la seconda volta, dopo esser stato derubato al primo tentativo da un commando. ”Erano cinque persone, mascherate e armate. Ci hanno fermato, derubato e hanno danneggiato la nostra imbarcazione gonfiabile, costringendoci a ritornare nelle coste turche. A giudicare dal loro accento non credo fossero turchi. Forse erano greci o forse tedeschi. Alcuni siriani credono che questi criminali siano collusi con l’ISIS”. Un destino simile è occorso a Omar, siriano di 25 anni, privato di alcuni dei suoi averi nei pressi dell’isola di Leros circa due mesi fa, insieme ai suoi compagni di ventura. Nel frattempo Omar è riuscito a raggiungere la Germania, in circa un mese di viaggio, seguendo la rotta della ferrovia con il GPS del suo telefono, passando per Atene, la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria. Nonostante il furto, Omar è uno dei più fortunati tra gli oltre 158.000 migranti che hanno raggiunto la Grecia via mare dall’inizio dell’anno. I più sfortunati sono coloro che sono sbarcati all’isola di Kos, diventata una vera e propria trappola per i circa 700 sfollati che sbarcano quotidianamente sull’isola da oltre due mesi. Gli arrivi si susseguono ad un ritmo molto più rapido della capacità di identificazione delle autorità locali e sono stati per questo trasferiti in strutture fatiscenti su ordinanza del furioso sindaco di Kos, che li vuole lontani dagli sguardi dei turisti. Il decrepito hotel Captain Elias e lo stadio di Antagoras sono diventate le dimore temporanee per migliaia di anime in transito, in condizioni igieniche disastrose, ad alto rischio epidemie.Di fronte a questa situazione critica il governo greco non sembra muovere un dito. Il vice-ministro per la migrazione Tasia Christodolou scuote la testa nel suo ufficio alla domanda su cosa fare di fronte a questa situazione allarmante. “Senza il supporto dell’Unione Europea il nostro potere è quasi nullo” racconta, facendo da eco ad Alexis Tsipras, che ha definito quella dei migranti “una crisi nella crisi che ci dà poche possibilità di azione”. E’ beffardo il modo in cui i destini di questi uomini, di queste donne e di questi bambini in rotta verso il cuore dell’Europa, si sia incrociato in maniera beffarda al destino del paese ellenico, sempre più in ginocchio a causa delle politiche di austerità e dalle instabilità politiche interne, che porteranno il paese ad elezioni anticipate questo autunno, dopo la beffa del referendum e l’approvazione del terzo memorandum. Nel parco di Pedio tuo Areos ad Atene, circa un migliaio di profughi stazionano in tende da campeggio a pochi metri da un nutrito gruppo di tossici, che all’ombra degli alberi del parco si iniettano in vena una dose a buon mercato di un veleno che somiglia all’eroina. “La droga dell’austerità”, la chiamano ad Atene, una pozione letale che distrugge corpo e cervello in tempi molto più rapidi. Per settimane questi profughi, soprattutto afgani, più poveri rispetto ai siriani e con meno opportunità di ottenere asilo politico, hanno cercato di vivere nel modo più normale possibile. Ma è quando arrivano le associazioni umanitarie a dar loro un po’ di supporto, che si può notare la disperazione abitare gli sguardi di queste persone.I bambini si mettono in fila, affamati, per ricevere del cibo, del pane e dell’acqua da portare alle loro famiglie, mentre i gruppi di volontari cercano di fare il possibile per non aumentare la confusione tra la gente. Ad aiutare sono in molti, dalle associazioni di afgani stabilitisi ad Atene, ai giovani dei centri sociali del quartiere anarchico di Exarchia, fino ai circoli politici di Syriza, che per tradizione cercano di riallacciare i tessuti sociali dei quartieri più a rischio. Si tratta dello stesso circolo virtuoso di solidarietà che ha permesso al paese ellenico di resistere in questi cinque anni di turbolenze economiche e finanziarie, mantenendo intatta l’unità sociale ed evitando le disgregazioni interne. E’ stata questa solidarietà a portare anche i cittadini più squattrinati ad usare il proprio tempo e le proprie energie per aiutare chi si trova in situazioni ancor peggiori, con progetti di condivisione del cibo, di accoglienza e di assistenza medica, di fatto sostituendosi al claudicante potere politico greco, che si è trovato costretto quest’estate a dover gestire il peso dei più spinosi problemi dell’intera Europa.

Pubblicato su Il Reportage di Ottobre

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