Stranieri a casa propria
January 16, 2017Scritto per LEFT - 15 Gennaio 2017 - Yangon, Myanmar. Frustate, calci in faccia e sulla schiena. Un poliziotto birmano con la sigaretta in bocca filma con il telefonino le violenze perpetuate dai suoi colleghi, con aria fiera e lo sguardo fisso sulla videocamera. Seduti per terra, in cattività, con le gambe protese in avanti e le mani dietro la nuca, centinaia di persone senza cittadinanza. Sono i Rohingya, un popolo mussulmano stanziato a Nord dello stato occidentale del Rakhine, il più bistrattato e perseguitato del Myanmar. La legge di Cittadinanza del 1982 non gli include neppure tra le 135 “razze nazionali” del paese multietnico. Per il governo, e le popolazioni buddiste confinanti, non si tratta nemmeno di un popolo, ma di immigrati illegali arrivati dal Bangladesh e quindi titolari di nessun diritto. Il video delle violenze girato qualche settimana fa dal poliziotto ha fatto il giro del web, suscitando scalpore, almeno quanto le immagini dei profughi fuggiti su imbarcazioni di fortuna tra la primavera e l’estate del 2015, per ritrovarsi, esausti e denutriti, abbandonati al largo del mare di Andaman. Stranieri in casa propria, 1.1 milioni di Rohingya vivono di fatto in un sistema di apartheid, privi di libertà di movimento e di sicurezza sanitaria. Era dal 2012 che non si verificavano episodi di violenza a questa intensità, da quando una serie di scontri tra le comunità nazionaliste buddiste e quella mussulmana nel Rakhine, provocarono decine di morti e migliaia di profughi. Da allora, secondo l’International Crisis Group, i militanti Rohingya si sono organizzati in un comitato con sede a Mecca, l’Harakah al-Yakin (Movimento di Fede). Proprio questi militanti hanno rivendicato l’assassinio di nove ufficiali di polizia birmani il 9 Ottobre scorso a Maungdaw, rilasciando in seguito dei video in cui affermano che “la nostra gente ha deciso di liberarsi dagli oppressori” e che “non ci fermeremo fino a che i nostri obiettivi saranno raggiunti”. Le ritorsioni del governo del Myanmar, in seguito agli attacchi, non si sono fatte attendere. Secondo un report di Human Rights Watch (HRW), che si è avvalsa di immagini scattate da un satellite, almeno 1500 edifici sono stati distrutti nel distretto di Maungdaw. La zona è diventata off-limits per giornalisti e organizzazioni umanitarie. Il governo ha negato al principio le proprie responsabilità, accusando al contrario i militanti mussulmani per gli attacchi del 9 Ottobre. L’ufficiale birmano incaricato di investigare, Aung Win, ha affermato che “i villaggi bengalesi sono delle basi militari”, di fatto privando i Rohingya di un’identificazione etnica e culturale, aggiungendo che i soldati birmani non hanno stuprato le donne “perché sono molto sporche”. Ma il report di HRW dimostra come i villaggi siano stati bruciati, secondo un ordine spaziale e temporale, il che sta a dimostrare l’avanzata dei militari verso Occidente e la conseguente progressiva distruzione dei villaggi. La ritorsione ha prodotto in poche settimane oltre 30.000 sfollati. I rifugiati fuggiti in Bangladesh, alla città portuale di Cox’s Bazar, raccontano che le loro case sono state bruciate dalla polizia birmana. Alcune donne raccontano di esser state stuprate. Tra le narrazioni riportate dalla stampa internazionale emergono episodi raccapriccianti, come quello del rastrellamento di un gruppo di bambini, fatti saltare in aria all’interno delle loro case. “Il governo vive nella menzogna” racconta a Left Mukhtar, commerciante di gemme, davanti alla moschea sciita Mogul di Yangon. “Quello che è in corso nei confronti dei Rohingya è un genocidio vero e proprio. Tutti lo sanno, ma il governo fa di tutto per sviare l’argomento”. Una frase che fa eco a quella del leader malesiano Najib Razak, che ha affermato che “il mondo non può sedersi ed osservare un genocidio”, aprendo di fatto una frattura tra i paesi ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), di cui il Myanmar fa parte dal 1997. Una lettera di 14 premi Nobel, di cui 12 Nobel per la pace, firmata anche da altri intellettuali internazionali tra i quali Romano Prodi, è stata inviata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, chiedendo che la persecuzione dei Rohingya sia trattata come una priorità. L’accusa chiama in causa direttamente Aun San Suu Kyi, attuale leader del Myanmar, premio nobel per la pace nel 1991 e da sempre considerata icona democratica del paese. Un’immagine che queste accuse stanno facendo svanire giorno dopo giorno. Criticata per aver tenuto il silenzio davanti all’evidenza, Suu Kyi si trova a vacillare tra gli interessi conflittuali del suo governo, nonché nella difficile condizione di dover collaborare con l’esercito. Dopo aver respinto in diverse occasioni le accuse a lei rivolte, in un’intervista rilasciata il mese scorso a Channel News Asia, Suu Kyi ha chiarito la sua posizione: “non sto dicendo che non ci sono difficoltà, ma che è meglio se la gente riconosce i problemi e si focalizza nel risolverli, anziché esagerarli, rendendo le cose peggiori di quello che di fatto sono attualmente”. L’estate scorsa Aun San Suu Kyi aveva provato a rilanciare il programma di cittadinanza, permettendo ai cittadini di registrarsi senza dichiarare il loro gruppo etnico di appartenenza, sortendo però poco successo tra i Rohingya, a causa della loro indissolubile sfiducia nei confronti del governo. Aun San Suu Kyi, che alle elezioni del Novembre 2015 ha guadagnato l’86% dei seggi all’Assemblea dell’Unione, è stata accolta con un ottimismo liberatorio dalla maggior parte del paese, straziato dopo decenni di dittatura militare. Al di là della questione dei Rohingya, la sensazione tra la popolazione, e soprattutto tra i giovani, è che le cose stiano finalmente piano piano cambiando. Denghi, una ragazza trentenne di Mawlamyne, è appena tornata a vivere nel suo paese dopo aver lavorato per alcuni anni in Qatar. “E’ difficile trovare lavori con una buona retribuzione in Myanmar” racconta. “Per questo ho deciso di trasferirmi in Qatar. L’economia sta piano piano migliorando, ma gira ancora a livelli bassissimi”. Per livello del PIL, il Myanmar è il settimo paese dell’ASEAN, dietro il Vietnam e davanti alla Cambogia. “A livello sociale il cambiamento è più facile da percepire” racconta Denghi. “Internet ne è la prova. Prima delle ultime elezioni era impensabile pubblicare su Facebook dei contenuti anti-governativi. Ora internet e la stampa sono più liberi e questo aiuta il dibattito interno. La gente ha fretta che le cose cambino, ma forse dovrebbe essere più paziente e rendersi conto che la transizione sarà graduale.” Per Aun San Suu Kyi, la questione dei Rohingya, congiunta agli altri conflitti etnici nelle zone di frontiera del paese, rappresenta l’ostacolo principale per rilanciare il Myanmar e trasmettere fiducia agli investitori internazionali. Era stato proprio suo padre, Aun San, a mettere d’accordo i diversi gruppi etnici nel 1947 con “l’accordo di Panglong”, assicurando loro che sarebbero stati parte dell’Unione Birmana, godendo di autonomia politica per 10 anni, per poi poter scegliere se rimanere o lasciare l’Unione. Ma sei mesi prima dell’indipendenza della Birmania, Aun San venne ammazzato da una gang di paramilitari fedeli all’ex primo ministro U Saw, con armi britanniche. Con la morte di colui che è tuttora considerato il padre della nazione, è naufragato anche il progetto di un paese disposto ad offrire autonomia politica e culturale ai diversi gruppi etnici che lo compongono. Un compito difficilissimo, che dopo 53 anni di dittatura militari ricade sulle mani della figlia, imbrigliata da una costituzione riformata dalla giunta militare nel 2011 e sempre più in imbarazzo dinanzi alle accuse degli avvocati dei diritti umani di mezzo mondo, per non aver fatto nulla per evitare il massacro dei Rohingya.