Turchia: un uomo solo al comando

Scritto per LEFT 

Al quartier generale del Partito Democratico del Popolo (HDP) di Istanbul, la delusione nell’osservare i risultati delle elezioni politiche in Turchia è massima. “Non ce la sentiamo di dire nulla finché non riusciremo a capire cosa sta accadendo” sussurra Haluk Agadeyoglu, responsabile comunicazione in seno al partito della sinistra filo-curda, tra una telefonata nervosa e l’altra. Al terzo piano dell’ufficio del quartiere di Tarlabaşi, i membri del partito osservano i risultati del voto con aria allibita, uscendo di tanto in tanto per fumare una sigaretta nervosamente, mantenendo il silenzio. Nessuno ha voglia di parlare tranne Haluk. “Non ricordo nessuna elezione in cui i risultati siano arrivati così rapidamente. Normalmente a quest’ora i dati non coprono neppure il 50% dei voti. C’è qualcosa che non quadra in tutto questo.” Sono le 20.20 e lo spoglio è già al 90%. Le speranze sono già andate. Il partito dell’HDP raggiunge la quota di sbarramento del 10%, per la seconda volta consecutiva dopo le elezioni di Giugno, ma questa volta non c’è nulla da festeggiare. Tra il risultato storico di Giugno e oggi il partito ha perso circa un milione di voti, in Kurdistan è ricominciata la guerra tra il governo e il PKK, ad Ankara più di cento ragazzi sono saltati in aria nel peggior atto terrorista della storia repubblicana. Giovani innocenti, che sognavano un paese diverso, pacifico e aperto alle differenze, vittime di un attacco suicida legato all’ISIS che la polizia turca non ha saputo, e secondo alcuni voluto, difendere. Oggi ad Istanbul c’è chi ha timore a prendere la metropolitana. Prima delle elezioni di Giugno il presidente Erdogan si era rivolto ai curdi, esortandoli a dare all’AKP 400 seggi in Parlamento, “per risolvere così la questione curda in pace”. Il risultato di Giugno è stato però ben diverso e le conseguenze, del tutto traumatiche. La paura, in cinque mesi, è riuscita a capovolgere la situazione. Con quasi il il 50% del totale dei voti, l’AKP questa settimana si è ripreso la maggioranza assoluta persa quest’estate e dal 19 novembre tornerà ad imporre la propria legge, senza antagonismi, nel paese. “Per noi è un risultato terribile” racconta Roza, fotografa freelance curda di 28 anni, con le lacrime agli occhi. Secondo Haluk Agadeyoglu ”Il timore è che gli attacchi continueranno e che questo paese rimanga in una condizione di perpetuo shock”.Del tutto opposta l’atmosfera a pochi passi dalla sede principale dell’AKP di Istanbul, sul Corno d’Oro, dove la gioia in seguito ai risultati elettorali raggiunge livelli incontenibili. Le bandiere del partito al governo dal 2002 e quelle della Turchia sventolano di fianco al ritratto del Presidente della Repubblica. Bambini, uomini e donne di tutte le età esultano festosi, mostrando il simbolo delle quattro dita che si rifà ai Fratelli Mussulmani egiziani e al massacro della moschea di Raaba a Il Cairo. “Erdogan è il nostro destino e l’uomo giusto per il nostro paese” racconta Arif, 50 anni, impiegato. Grazie al risultato raggiunto, con il consenso di ulteriori 15 parlamentari, l’AKP potrebbe lanciare l’agognato referendum, per trasformare il vigente sistema parlamentare in un sistema presidenziale, con un uomo solo al comando. “La Turchia ha bisogno di un solo partito” racconta Akhmet, 45 anni, tassista. “E’ finito il periodo delle coalizioni. Per questo sono felice dei risultati elettorali”. I cori per il leader di Istanbul si alternano ai cori ritmati “Bismillah” e “Allah Uakbar”. La vittoria di Erdogan è la loro vittoria, quella del modello mussulmano-neoliberista della Turchia contemporanea che si candida alla leadership del Medio Oriente, spingendo verso la sconfitta di Assad in Siria e l’annientamento della resistenza curda nel Sud-Est del paese. Una politica che è riuscita a centrare l’obiettivo di queste elezioni: intercettare le preferenze dei sostenitori del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), che di fatto ha perso il 4.4% dei voti, confluiti al partito del neo-premier Davugotlu, permettendo questo miracolo politico firmato, ancora una volta, Recep Tayyip Erdogan. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP) ha raccolto un quarto dei voti del paese, attingendo al tradizionale bacino di voti delle coste dell’Egeo e assestandosi sui risultati di Giugno. A far festa è anche la borsa di Istanbul, che ha subito registrato una crescita del 5%, e la lira turca, che è tornata a guadagnare terreno sul dollaro, dopo aver perso oltre il 25% del suo valore a causa delle continue instabilità nel paese. Questa ritrovata, seppur temporanea, stabilità è stata però ottenuta a caro prezzo. A farne le spese sono soprattutto i media indipendenti, che stanno subendo una brutale censura. A pochi giorni dalle elezioni, le forze governative hanno fatto irruzione negli studi dell’Ipek Hoya Holding, di proprietà dell’ex alleato e ora arci-nemico Fethullah Gulen, licenziando i caporedattori dei giornali Bugün e Millet e delle TV Kanalturk e Bugün, rimpiazzandoli con giornalisti vicini alle posizioni governative. Le narrazioni dei fatti di cronaca di interesse pubblico scomodi all’AKP sono state condannate. I giornali minori si trovano invece minacciati a scomparire, sia a causa della cancellazione degli introiti pubblicitari governativi, sia a causa delle continue condanne per diffamazione a mezzo stampa. Berkant Gültekin, caporedattore del giornale d’opposizione Birgun, deve rispondere ad una decina di condanne per aver riportato la notizia dei convogli di armi smistati dalla polizia turca verso gruppi di jihadisti in Siria e per aver criticato in diverse occasioni l’operato del presidente della Repubblica. “Siamo rassegnati all’idea che in Turchia dobbiamo pagare per dire la verità, ma la nostra è una lotta per la democrazia in questo paese e non possiamo mollare”. Il prezzo da pagare, per dire la verità e dissentire, sta però diventando sempre più alto. Tra le due tornate elettorali anche la sede di Hurriyet, principale quotidiano d’opposizione, è stata assaltata. Uno dei suoi giornalisti più rappresentativi, Ahmet Akan, è stato severamente picchiato all’inizio di Ottobre. Giornali, agenzie e blog di contro-informazione sono stai oscurati. Il mistero della morte di Jacky Sutton, ex giornalista BBC e membro dell’Institute for War and Peace Reporting, trovata impiccata con i lacci delle scarpe all’aeroporto di Istanbul prima di prendere un volo per Erbil, non è stato svelato. Mohammed Rasool di Vice News, è detenuto senza spiegazioni da Agosto. Le principali organizzazioni impegnate a difendere la libertà di stampa, si sono radunate d’emergenza ad Istanbul tra il 19 e il 21 Ottobre, per chiedere al governo turco di interrompere la strategia della tensione e per investigare i gravi attacchi ai giornalisti e agli organi di stampa di questi giorni. Il nuovo governo ha però risposto in maniera opposta e la repressione ai giornalisti è continuata anche dopo la vittoria elettorale, con la detenzione di due redattori del magazine Nokta a causa della controversia cover apparsa il giorno dopo la tornata elettorale dal titolo: “2 Novembre: Comincia la guerra civile in Turchia”.

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