Ora ho paura di dire qualsiasi cosa

Scritto per Left, Aprile 2021 - Dai primi di Gennaio ad oggi, ogni giorno, il copione si ripete. Dalle prime ore del mattino gruppi di uomini, donne e bambini di popolazione uigura si allineano con le loro bandiere dirimpetto al consolato cinese di Istanbul. Portano un cartello al collo con le foto dei loro familiari e amici scomparsi. “Fascist China! Terrorist China! Genocide China!” gridano a squarciagola in direzione del consolato. “Liberate i nostri familiari e amici innocenti” è scritto sul cartello di una ragazza. Su di un altro, la foto di un campo di concentramento nazista è accostata a un’immagine di un campo di detenzione cinese: uno di quelli dove sono scomparse centinaia di migliaia di persone di etnia uigura. Un signore sulla quarantina, Murat, si avvicina e mi mostra una foto di sua madre sul cellulare. “É uno screenshot. Per quattro anni non ho avuto sue notizie, poi mi ha chiamato, qualche mese fa. Era un poliziotto che la obbligava a farlo, per dirmi di smettere di fare ciò che sto facendo qui” mi spiega. “Per dirmi cioè di starmene zitto” prosegue. Le persone alla protesta sono solo una piccola parte dei circa 50 mila Uiguri che si sono trasferiti in Turchia lasciandosi alle spalle la loro terra natale, quel Turkmenistan Orientale che è stato per due volte brevemente indipendente prima di confluire all’interno della Repubblica Popolare Cinese e diventare la regione autonoma dello Xinjiang (nuova frontiera). Negli ultimi decenni Pechino ha incentivato la migrazione di giovani cinesi di etnia Han verso l’emergente città di Urumqi, oggi snodo fondamentale delle nuove vie della seta. Di conseguenza gli Uiguri sono diventati minoranza, costretti ad adeguarsi ad accettare regole sempre più rigide imposte dalla capitale, volte a cancellare la loro cultura, la loro religione e la loro identità. Lo sviluppo infrastrutturale dello Xinjiang e l’accelerazione dello sfruttamento delle sue ricche risorse è andato di pari passo alla repressione del popolo uiguro, sotto forma di genocidio demografico. A sporadici attacchi terroristici ed episodi di rivolta di militanti uiguri sono seguite misure sempre più restrittive: controllo delle nascite, sterilizzazioni e aborti forzati, checkpoint stradali, tracciamento informatico e onnipresenza delle videocamere di sorveglianza, anche e soprattutto all’interno delle moschee. A Urumqi, come a Kashgar, si dice che “tutti i muri abbiano orecchie”. Dal 2017 il governo cinese è passato all’indottrinamento, con la creazione di campi di detenzione definiti da Pechino “di rieducazione”, un sistema che riecheggia i metodi della “rivoluzione culturale” e che i cinesi giustificano come luoghi necessari per eliminare ogni forma di radicalismo. In questi campi sono state internate circa un milione di persone, “colpevoli”, a volte, anche soltanto di essere mussulmane o di avere parenti all’estero, come la madre di Murat. Una volta radunate in questi campi le persone diventano irraggiungibili per i loro parenti, ai quali la Cina offre solo una possibilità: quella di dichiarare ufficialmente sui propri profili social di rinunciare al nome e alla bandiera del Turkmenistan Orientale, fare uno screenshot e mandarlo a un indirizzo Gmail, che viene loro recapitato tramite una lettera non ufficiale dell’ambasciata cinese di Ankara. Sirajideen, un ragazzo di 14 anni che è stato inviato dai suoi genitori a Istanbul per studiare nella “Fondazione Uigura della Scienza e della Conoscenza” nel distretto di Selimpaşa, non ha avuto notizie del padre per quattro anni. Fino al giorno in cui, guardando un video di un parente su Douyin, la versione cinese di tiktok, si è sentito dire tra altre informazioni scomposte volte a eludere la sorveglianza cinese, che il padre “è passato a miglior vita”. Da allora Sirajideen fatica a dormire la notte. I suoi amici, che come lui da anni non hanno notizie dei loro cari, ora hanno paura. Eppure, secondo la Cina, gli Uiguri sono “i mussulmani più felici del mondo”. La Turchia li ha accolti negli anni in un ambiente in cui si sono sentiti a casa, per le affinità culturali, linguistiche e religiose tra i due popoli. Nel 2009 il presidente Erdogan ha parlato di “genocidio” per definire l’operato del Partito Comunista Cinese nei loro confronti. Più recentemente, Stati Uniti, Canada e Paesi Bassi hanno condannato la Cina dello stesso crimine. A Marzo di quest’anno i paesi Occidentali hanno, per la prima volta dopo Tienanmen, imposto sanzioni restrittive al Dragone per le violazioni dei diritti umani nei confronti degli Uiguri in Xinjiang, una mossa che Pechino e Mosca hanno giudicato come un meccanismo di “guerra fredda”. Nel frattempo, la posizione del governo turco è diventata sempre più ambigua, oggi che la pandemia ha aggravato l’acuta crisi economica che affligge un paese sempre più sensibile alle avance cinesi. Il presidente Erdogan non pronuncia da tempo la parola genocidio. Al contrario, il 27 Dicembre 2020 Pechino ha annunciato di aver rettificato un accordo di estradizione firmato nel 2017 con il governo di Ankara. Per gli Uiguri rifugiati in Turchia, la notizia ha avuto il sapore del tradimento. “Possibile che la Turchia voglia venderci per qualche milione di dosi di vaccino cinese?” si chiede Mohammed, un attivista uiguro che da mesi filma le proteste al consolato per condividerle sui social. Una notte, qualche mese fa, la polizia turca è entrata in casa sua cercando prove di un suo legame con lo Stato Islamico. É stato incarcerato per 40 giorni e poi rilasciato. Il governo turco ha affermato che l’accordo di estradizione si riferisce soltanto a criminali e terroristi, ma persone come Mohammed temono di avere soltanto una scelta: scappare una volta ancora. Nel frattempo le cose in Turchia sono già cambiate: i tempi per ottenere la cittadinanza turca per gli Uiguri si sono dilatati mentre è diminuita la tolleranza della polizia verso le manifestazioni di protesta. La preoccupazione che gruppi di terroristi Uiguri si nascondano in Turchia è in parte reale. Sono a volte i video propagandistici associati al Partito Islamico del Turkestan (ETIP), che vorrebbe sostituire la Regione autonoma dello Xinjiang con uno stato indipendente del Turkestan Orientale, ad attirare nuove reclute alla rete jihadista che fa base in Siria. Il desiderio di affrontare direttamente la Cina con una guerra religiosa ha fatto breccia in Alim e Amilah, una coppia che ha lasciato lo Xinjiang per raggiungere la Siria e addestrarsi, con l’aspirazione di un giorno consumare la propria vendetta. Mentre si prende cura dei suoi due figli nel piccolo appartamento di un quartiere periferico di Istanbul, Amilah si rattrista all’idea che un giorno possano crescere senza un padre ma, racconta, “sono disposta a seguire mio marito ovunque”. Il radicalismo assunto da una minoranza di Uiguri è considerato un problema molto grave per il resto della comunità. Ne è cosciente Nursimangul Abdurashid, giovane attivista che ha avuto l’occasione di parlare in Parlamento ad Ankara su invito del partito nazionalista IYI, che recentemente ha fatto da megafono alle preoccupazioni degli Uiguri in Turchia. Nursimangul ha descritto pubblicamente le esperienze terribili dei suoi familiari nei campi di detenzione. L’indomani, i principali media turchi, parlavano di  lei come di una “terrorista”. “Ora ho paura a dire qualsiasi cosa” racconta. “Ogni parola che pronuncio può avere ripercussioni verso le nostre famiglie e la nostra causa. Hanno permesso alla Cina di metterci tutti in un angolo e di definirci tutti criminali che è davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno”.

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