Non possono lasciarci qui sul confine di Orban


Scritto per LEFT, 8 Ottobre 2016 - Belgrado, Serbia.

Al parco di fronte alla stazione degli autobus di Belgrado, le cose, all’apparenza, non sembrano essere così cambiate da un anno a questa parte. Un centinaio di rifugiati siedono qua e là per le panchine del parco, si lavano alla fontana centrale, dormono avvolti da coperte nel parcheggio adiacente, contattano amici e parenti a casa con il proprio smartphone. Se non che tutto il parco è stato circondato da una rete arancione, di quelle che di solito si usano nei cantieri, e che questi viaggiatori forzati, provenienti soprattutto da Afghanistan e Pakistan, non sono più in transito verso i paesi del Nord Europa come l’autunno scorso, ma bloccati in Serbia, nella vana speranza che i confini un giorno possano riaprire, con la sola certezza che dal loro viaggio non ci sia una via di ritorno. In molti ci provano ancora a varcare il confine con l’Ungheria, rimasto l’unico accessibile dopo la chiusura della frontiera con la Croazia nell’Aprile scorso. C’è chi si avventura attraverso la frontiera da solo, usando il GPS del proprio telefonino, sperando di non essere intercettato dalle guardie ungheresi di confine. C’è chi si rivolge ai trafficanti che ancora oggi offrono una rotta un tantino più sicura, ma che costa un migliaio di euro, per chi ha ancora dei risparmi e può permetterselo. Ci ha provato già quattro volte Aarash, un ragazzo di 23 anni proveniente dall’Afghanistan, per anni al servizio degli americani e poi minacciato dai talebani. Ad aspettarlo, oltre il confine, c’erano i cani della polizia e dell’esercito di Orban, quei guardiani della frontiera ungherese che non hanno esitato a scacciarlo a suon di manganellate e spray stordente. “Non possono lasciarci qui” racconta disperato. “Che possiamo fare? Ormai siamo arrivati sino a questo punto. Non possiamo tornare indietro”. Martedì 4 Ottobre, un gruppo di migranti che stazionavano alla stazione, è partito in forma di protesta a piedi, diretto al confine con l’Ungheria. Proprio lì, qualche chilometro più a Nord, nella campagna sterminata che s’infrange alle recinzioni e al filo spinato del confine di Horgos, che dista una manciata di chilometri dalla città ungherese di Szeged, c’è chi ancora aspetta di attraversare la frontiera legalmente. In questo valico di frontiera sono quindici le persone che possono entrare in Ungheria ogni mattina, secondo una lista del Commissiarato per i rifugiati nella quale ci si deve registrare, per poi aspettare il proprio momento. Altre 15 possono entrare dall’altro confine, quello di Kelebija. Di questi 15 posti disponibili, 14 sono destinati a gruppi familiari che viaggiano insieme, mentre l’ultimo posto è riservato agli uomini che viaggiano da soli, che rappresentano la maggioranza delle persone. In un campo di una dozzina di tende, molte delle quali abbandonate da chi ha perso le speranze di aspettare, Moshtaba, 18 anni afghano, è fiducioso che il suo turno arriverà in fretta. E’ rimasto al campo ogni giorno per non perdere il suo momento. “In cinque giorni dovrei riuscire ad entrare in Ungheria. Ho aspettato qui per circa tre mesi” racconta. “Spero che questa sia la volta buona”. Dall’altra parte del confine, i rifugiati sono sottoposti ai controlli delle autorità ungheresi, che in alcuni casi possono culminare anche in dei respingimenti. Domenica scorsa, i cittadini ungheresi sono stati chiamati al voto per rispondere ad un quesito referendario alquanto controverso: “Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?” Un referendum promosso da una vibrante e costosa campagna anti-migranti dal governo di Orban, che non è riuscita però a persuadere la metà della popolazione necessaria per raggiungere il quorum, fermandosi al 43% dei voti. Un referendum che ha spaccato in due l’opinione pubblica sul tema dei rifugiati. L’opposizione ha affermato con orgoglio che la maggioranza della popolazione è lontana dalle idee governative relative all’immigrazione. Ma il presidente Orban non ha esitato a cantare comunque vittoria, intimando all’Unione Europea di prendere nota del fatto che il 98% dei votati si è schierato con la decisione del governo di rifiutare lo schema di ricollocamento dei rifugiati , affermando di voler cambiare la costituzione ungherese per rendere effettiva la decisione. Secondo il programma, iniziato lo scorso Settembre dalla Commisione Europea per trasferire 160.000 rifugiati da Grecia e Italia agli altri paesi dell’Unione, l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere 1.294 richiedenti asilo. Uno schema che finora si è rilevato piuttosto fallimentare, dato che soltanto 6.000 rifugiati sui 160.000 previsti hanno finora trovato sistemazione in un paese europeo. A Subotica, città serba al confine con l’Ungheria, i rifugiati e i migranti che stazionano da mesi su un campo costruito in mezzo alla campagna, tra una fattoria e un campo di frumento, non sono neppure al corrente che in Ungheria si sia andati alle urne per una questione simile. La vita nel campo procede ogni giorno a ritmo regolare. Di notte qualcuno testa la fortuna e si avventura attraverso il confine. Un gruppi di ragazzi pakistani afferma che attraversare è ancora possibile, anche se la maggior parte di loro è già stata rimandata indietro. C’è chi mostra sulla propria pelle le morsa dei cani della polizia. C’è chi dice che i membri della propria famiglia sono già in Ungheria e che lo stanno aspettando per continuare il viaggio verso l’Europa del Nord. C’e chi è del tutto fatalista e attende ogni giorno che qualcosa possa cambiare, non sapendo che cos’altro fare. Hammad ha circa quarant’anni. E’ partito dal Pakistan quando ancora i confini erano aperti. “Cosa possiamo fare a questo punto?” chiede con un sorriso beffardo. Una domanda alla quale nessuno sa rispondere. Secondo le cifre ufficiali sono oltre 5.000 i rifugiati e i migranti ancora bloccati in Serbia, contro i 1600 dell’Aprile di questo anno. Nell’ottobre dell’anno scorso, erano circa 4.000 le persone che attraversavano il confine quotidianamente, prima che in Europa nascesse la moda delle recinzioni e del filo spinato. Attualmente ogni giorno, secondo le stime, entrano in Serbia 200 persone, principalmente attraverso la rotta più malfamata, quella del confine tra la Turchia e la Bulgaria. E’ una cifra approssimativa, dato che da Aprile non vengono più rilasciati quei certificati di transito di 72 ore che documentavano precisamente il numero di persone in entrata nel paese. Tra i ragazzi di Subotica, i ricordi del viaggio attraverso la Bulgaria possono definirsi incubi. C’è chi racconta di essere stato malmenato, derubato, detenuto per settimane nei centri di detenzione. Per questo, per la maggior parte di loro, la Serbia è un paese sicuro in cui rimanere. “Qui siamo sempre stati trattati bene” racconta Hammad. “Ma i poliziotti in Bulgaria e in Ungheria sono davvero pazzi. Questa gente non conosce cosa vuol dire essere umani”. Lo sa bene invece Tarek Murat, rifugiato siriano arrivato in Serbia nel Luglio del 2014, che dopo aver portato supporto come volontario per mesi al confine tra Serbia e Bulgaria di Dimitrovgrad, offre oggi supporto ai rifugiati che cercano di entrare in Ungheria attraverso il confine di Kelebija, con la sua organizzazione “I am Human”. Con il supporto di un gruppo di volontari ha dato vita ad un centro che offre attività ai rifugiati bloccati in Serbia, offrendo internet, un parrucchiere, una fotocopiatrice, elettricità per ricaricare il telefonino, lezioni di cucina e pittura per le donne, una scuola di base per i bambini e altre attività come danza e lezioni di lingua. “Se ognuno si prendesse cura dell’altro, nessuno sarebbe in difficoltà” racconta Tarek. “Siamo tutti fatti di carne e sangue. Respiriamo la stessa aria e abbiamo gli stessi diritti come esseri umani. I confini sono un’illusione, ma le guerre sono vere, e sono fatte dagli umani”.





Scritto per LEFT, 8 Ottobre 2016 - Al parco di fronte alla stazione degli autobus di Belgrado, le cose, all’apparenza, non sembrano essere così cambiate da un anno a questa parte. Un centinaio di rifugiati siedono qua e là per le panchine del parco, si lavano alla fontana centrale, dormono avvolti da coperte nel parcheggio adiacente, contattano amici e parenti a casa con il proprio smartphone. Se non che tutto il parco è stato circondato da una rete arancione, di quelle che di solito si usano nei cantieri, e che questi viaggiatori forzati, provenienti soprattutto da Afghanistan e Pakistan, non sono più in transito verso i paesi del Nord Europa come l’autunno scorso, ma bloccati in Serbia, nella vana speranza che i confini un giorno possano riaprire, con la sola certezza che dal loro viaggio non ci sia una via di ritorno. In molti ci provano ancora a varcare il confine con l’Ungheria, rimasto l’unico accessibile dopo la chiusura della frontiera con la Croazia nell’Aprile scorso. C’è chi si avventura attraverso la frontiera da solo, usando il GPS del proprio telefonino, sperando di non essere intercettato dalle guardie ungheresi di confine. C’è chi si rivolge ai trafficanti che ancora oggi offrono una rotta un tantino più sicura, ma che costa un migliaio di euro, per chi ha ancora dei risparmi e può permetterselo. Ci ha provato già quattro volte Aarash, un ragazzo di 23 anni proveniente dall’Afghanistan, per anni al servizio degli americani e poi minacciato dai talebani. Ad aspettarlo, oltre il confine, c’erano i cani della polizia e dell’esercito di Orban, quei guardiani della frontiera ungherese che non hanno esitato a scacciarlo a suon di manganellate e spray stordente. “Non possono lasciarci qui” racconta disperato. “Che possiamo fare? Ormai siamo arrivati sino a questo punto. Non possiamo tornare indietro”. Martedì 4 Ottobre, un gruppo di migranti che stazionavano alla stazione, è partito in forma di protesta a piedi, diretto al confine con l’Ungheria. Proprio lì, qualche chilometro più a Nord, nella campagna sterminata che s’infrange alle recinzioni e al filo spinato del confine di Horgos, che dista una manciata di chilometri dalla città ungherese di Szeged, c’è chi ancora aspetta di attraversare la frontiera legalmente. In questo valico di frontiera sono quindici le persone che possono entrare in Ungheria ogni mattina, secondo una lista del Commissiarato per i rifugiati nella quale ci si deve registrare, per poi aspettare il proprio momento. Altre 15 possono entrare dall’altro confine, quello di Kelebija. Di questi 15 posti disponibili, 14 sono destinati a gruppi familiari che viaggiano insieme, mentre l’ultimo posto è riservato agli uomini che viaggiano da soli, che rappresentano la maggioranza delle persone. In un campo di una dozzina di tende, molte delle quali abbandonate da chi ha perso le speranze di aspettare, Moshtaba, 18 anni afghano, è fiducioso che il suo turno arriverà in fretta. E’ rimasto al campo ogni giorno per non perdere il suo momento. “In cinque giorni dovrei riuscire ad entrare in Ungheria. Ho aspettato qui per circa tre mesi” racconta. “Spero che questa sia la volta buona”. Dall’altra parte del confine, i rifugiati sono sottoposti ai controlli delle autorità ungheresi, che in alcuni casi possono culminare anche in dei respingimenti. Domenica scorsa, i cittadini ungheresi sono stati chiamati al voto per rispondere ad un quesito referendario alquanto controverso: “Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?” Un referendum promosso da una vibrante e costosa campagna anti-migranti dal governo di Orban, che non è riuscita però a persuadere la metà della popolazione necessaria per raggiungere il quorum, fermandosi al 43% dei voti. Un referendum che ha spaccato in due l’opinione pubblica sul tema dei rifugiati. L’opposizione ha affermato con orgoglio che la maggioranza della popolazione è lontana dalle idee governative relative all’immigrazione. Ma il presidente Orban non ha esitato a cantare comunque vittoria, intimando all’Unione Europea di prendere nota del fatto che il 98% dei votati si è schierato con la decisione del governo di rifiutare lo schema di ricollocamento dei rifugiati , affermando di voler cambiare la costituzione ungherese per rendere effettiva la decisione. Secondo il programma, iniziato lo scorso Settembre dalla Commisione Europea per trasferire 160.000 rifugiati da Grecia e Italia agli altri paesi dell’Unione, l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere 1.294 richiedenti asilo. Uno schema che finora si è rilevato piuttosto fallimentare, dato che soltanto 6.000 rifugiati sui 160.000 previsti hanno finora trovato sistemazione in un paese europeo. A Subotica, città serba al confine con l’Ungheria, i rifugiati e i migranti che stazionano da mesi su un campo costruito in mezzo alla campagna, tra una fattoria e un campo di frumento, non sono neppure al corrente che in Ungheria si sia andati alle urne per una questione simile. La vita nel campo procede ogni giorno a ritmo regolare. Di notte qualcuno testa la fortuna e si avventura attraverso il confine. Un gruppi di ragazzi pakistani afferma che attraversare è ancora possibile, anche se la maggior parte di loro è già stata rimandata indietro. C’è chi mostra sulla propria pelle le morsa dei cani della polizia. C’è chi dice che i membri della propria famiglia sono già in Ungheria e che lo stanno aspettando per continuare il viaggio verso l’Europa del Nord. C’e chi è del tutto fatalista e attende ogni giorno che qualcosa possa cambiare, non sapendo che cos’altro fare. Hammad ha circa quarant’anni. E’ partito dal Pakistan quando ancora i confini erano aperti. “Cosa possiamo fare a questo punto?” chiede con un sorriso beffardo. Una domanda alla quale nessuno sa rispondere. Secondo le cifre ufficiali sono oltre 5.000 i rifugiati e i migranti ancora bloccati in Serbia, contro i 1600 dell’Aprile di questo anno. Nell’ottobre dell’anno scorso, erano circa 4.000 le persone che attraversavano il confine quotidianamente, prima che in Europa nascesse la moda delle recinzioni e del filo spinato. Attualmente ogni giorno, secondo le stime, entrano in Serbia 200 persone, principalmente attraverso la rotta più malfamata, quella del confine tra la Turchia e la Bulgaria. E’ una cifra approssimativa, dato che da Aprile non vengono più rilasciati quei certificati di transito di 72 ore che documentavano precisamente il numero di persone in entrata nel paese. Tra i ragazzi di Subotica, i ricordi del viaggio attraverso la Bulgaria possono definirsi incubi. C’è chi racconta di essere stato malmenato, derubato, detenuto per settimane nei centri di detenzione. Per questo, per la maggior parte di loro, la Serbia è un paese sicuro in cui rimanere. “Qui siamo sempre stati trattati bene” racconta Hammad. “Ma i poliziotti in Bulgaria e in Ungheria sono davvero pazzi. Questa gente non conosce cosa vuol dire essere umani”. Lo sa bene invece Tarek Murat, rifugiato siriano arrivato in Serbia nel Luglio del 2014, che dopo aver portato supporto come volontario per mesi al confine tra Serbia e Bulgaria di Dimitrovgrad, offre oggi supporto ai rifugiati che cercano di entrare in Ungheria attraverso il confine di Kelebija, con la sua organizzazione “I am Human”. Con il supporto di un gruppo di volontari ha dato vita ad un centro che offre attività ai rifugiati bloccati in Serbia, offrendo internet, un parrucchiere, una fotocopiatrice, elettricità per ricaricare il telefonino, lezioni di cucina e pittura per le donne, una scuola di base per i bambini e altre attività come danza e lezioni di lingua. “Se ognuno si prendesse cura dell’altro, nessuno sarebbe in difficoltà” racconta Tarek. “Siamo tutti fatti di carne e sangue. Respiriamo la stessa aria e abbiamo gli stessi diritti come esseri umani. I confini sono un’illusione, ma le guerre sono vere, e sono fatte dagli umani”.




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