Nel lager dei migranti dimenticati dall’Europa

Scritto per LEFT - 6 Gennaio 2018 Dai viottoli della cittadella
portuale di Vathi nell’isola di Samos, Ahmed sta scendendo di corsa per
raggiungere i suoi amici in riva al mare. Il bambino con gli abiti sporchi
attraversa la strada noncurante, infilandosi tra due signore anziane per raggiungere
alcuni amici intenti a pescare, cercando di fare delle esche con molliche di
pane e polistirolo. I suoi amici sono siriani e iracheni, c’è chi è nell’isola
da tre, chi da cinque, chi da sette mesi. Hanno fatto tutti domanda di asilo
politico e ora sono in attesa, mentre i loro volti stanno diventando
gradualmente familiari per quei pochi residenti di Samos che popolano l’isola
d’inverno. Fino a un paio di anni fa le facce dei rifugiati di passaggio erano
indistinguibili. Si susseguivano l’una dopo l’altra, giorno dopo giorno.
Scendevano dai barconi a gruppi di cinquanta, poi in coda verso la
registrazione, per ottenere quei permessi temporanei che davano loro il tempo
di raggiungere il confine del paese. Sui loro volti l’espressione era però la stessa:
quella di una grande stanchezza mista a fiducia e a grande tenacia per perseguire il proprio obiettivo.
Nell’Agosto del 2015 sono sbarcate 12.500 persone in un solo giorno. Quest’anno
gli arrivi totali sono stati 5.400, ma la differenza è che oggi chi arriva non
parte subito, o perlomeno non riparte presto. Le facce dei nuovi arrivati non
si susseguono più l’una dopo l’altra. Nei loro sguardi l’espressione è di chi è
sospeso nel limbo. Dopo l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia del Marzo
2016, circa 15.000 rifugiati si sono ammassati nelle isole greche dell’Egeo, in
fuga dai conflitti in Siria e in Iraq. L’accordo, che ha ridotto del 97%
il numero degli arrivi, prevede che i migranti e i profughi sulla rotta
balcanica vengano rimandati in Turchia. Ciò porta ogni nuovo arrivato a
fare richiesta di asilo politico nel paese ellenico, intasando di
richieste gli uffici dell’asylum service che hanno tempi di
risposta lunghissimi. La maggior parte dei rifugiati di Samos vive in
tende o container nell’hotspot
militarizzato localizzato a nord del borgo di Vathi. “Al momento ci sono
1600 persone in un campo costruito per 700, in certi momenti le persone erano
oltre 2000. Molti bagni non funzionano e non vengono riparati” racconta
Rose De Jong dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU. Le strutture
gestite dal governo greco sono finite sotto accusa da parte di 19 ONG che
hanno scritto una lettera aperta ad Alexis Tsipras, chiedendo il trasferimento
dei richiedenti asilo in terraferma e accusando il governo di una risposta
umanitaria inefficace, nonché dell’assenza pressoché totale di supporto medico
e psicologico nelle isole. Negli ultimi mesi soltanto 2000 persone
sono state trasferite dalle isole ad Atene. “Una cifra che non è abbastanza
per risolvere il problema” afferma Rose De Jong. Nel frattempo il
terzo inverno nei campi delle isole è iniziato, la notte le temperature
hanno cominciato a scendere e piove di frequente. Dall’esterno l’hotspot ha l’aspetto di una prigione.
Gli ingressi sono controllati da telecamere. Sulle grate circondate da
filo spinato la persone hanno stesso ad asciugare gli abiti. La vallata accanto
al campo è diventata una discarica di rifiuti. Il governo greco non dà il
permesso alla stampa di entrare e il motivo è chiaro: dall’interno la
situazione appare ancora peggiore. Un rifugiato siriano mi accompagna di
notte attraverso un ingresso secondario, in una tenda dove dormono i figli di
una coppia di suoi amici: Hossein, Lena e Ahmed non hanno trovato posto nei
container e dormono in una piccola tenda a due passi dai bagni puzzolenti
dell’hotspot. Chi vive nei container
non se la passa molto meglio, perché tutto lo spazio è occupato dai letti a
castello e in ogni stanzino ci vivono almeno quattro persone. Una di
queste è Suleyman, rifugiato siriano che vive nel campo da circa otto mesi e
che attende da tre mesi una visita in ospedale. Ma a causa dei tagli alla
sanità, l’ospedale è a corto di risorse economiche e di personale. Il
direttore, Nikolaos Kaklamanis, se la prende con l’accordo firmato dall’Unione
Europea con la Turchia. “Da allora i rifugiati rimangono bloccati sull’isola
dopo il loro arrivo, ma non abbiamo i fondi per assistere tutti. In molti
vengono a richiedere delle diagnosi per problemi che neppure hanno e che potrebbero
aiutarli a lasciare l’isola, ma che inevitabilmente rallentano e rendono più
complesso il nostro lavoro”. È infatti soltanto nei casi di accertata
vulnerabilità, come malattie, problemi psicologici e gravidanze, che i
rifugiati possono sperare di ottenere un trasferimento più rapido verso Atene e
ça va sans dire che in molti sono
tentati di mettersi intenzionalmente in condizioni critiche, pur di fuggire da
un luogo in cui si sentono in prigionia. Questo rende le cose più difficili
anche a chi soffre davvero di problemi fisici e psicologici, legati ai traumi
vissuti prima di arrivare in Grecia e alle condizioni di vita all’interno dell’hotspot, tra mancanza di igiene e
sovraffollamento, nonché mancanza di dialogo tra rifugiati e istituzioni. Una
gran mano da quest’ultimo punto di vista la stanno dando i ”Samos volunteers”, un gruppo di
volontari indipendenti che ha messo a disposizione ai rifugiati uno spazio dove
riunirsi, bersi una tazza di tea, frequentare classi di lingua e di chitarra,
per stare alla larga per qualche ora dai problemi, in un luogo
amichevole. Tra la sporcizia e il filo spinato dell’hotspot invece, ogni
preoccupazione viene invece ingigantita. Lo sa bene Mohammed, 23 anni, che a un
certo punto qualche mese fa ha pensato di farla finita. Da allora gli sono
stati prescritti dei forti antidepressivi, ma le sue condizioni permangono
critiche. Abbas, un rifugiato iracheno di 28 anni, ha deciso di piantare
la tenda fuori dalle recinzioni e dal filo spinato del campo, per avere più
spazio vitale. Quando è partito da Baghdad non si sarebbe mai immaginato di
ritrovarsi in gabbia, dopo il pericoloso viaggio in mare dalla Turchia
alla Grecia. Si è convinto che la sua vita è un come un film e che una volta
ottenuto l’asilo e arrivato ad Atene si metterà a fare cinema. E’ questo sogno
l’energia che lo sta tenendo vivo in mezzo alla miseria, mentre l’Europa si
copre gli occhi fingendo di non vedere.

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