La guerra non è finita

Scritto per LEFT - Sarajevo - Mentre Ratko Mladić gridava ai giudici “Lažlaž” (bugia, bugia), un gruppo di una decine di persone si lasciava finalmente andare a un breve applauso e a un respiro profondo. Per tanti anni quelle parole ‘doživotna robija’ (prigionia a vita) sono state pretese e attese ed ora, davanti alla televisione, nel mattino del 22 Novembre a Sarajevo, vengono accolte con un giubilo pacato e un amaro sollievo. Il tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia dell’Aja ha sentenziato il generale delle truppe serbe bosniache Mladić, dichiarandolo colpevole di crimini contro l’umanità, del genocidio di Srebrenica del luglio 1995 che ha causato la morte di oltre 8000 persone, di terrore contro la popolazione civile di Sarajevo, della presa in ostaggio del personale dell’ONU. Con questo giudizio, si chiude dopo 530 giorni di processo e 591 testimoni, l’ultimo atto del tribunale speciale dell’Aja.“Forse oggi posso mettermi l’anima in pace” sussurra Bahra Hodžic, alzandosi stremata dalla sedia dove è rimasta incollata ad ascoltare la sentenza, con gli altri genitori appartenenti all’associazione dei bambini vittime della guerra. ”Il dolore e l’ingiustizia sono arrivati all’improvviso, la giustizia ci ha messo molto di più” aggiunge. In mano una foto di suo figlio, sul tavolo con la coperta verde delle biglie da gioco e un peluche, che si confondono alle foto di altre vittime e a oggetti che a loro appartenevano. A Bahra la guerra ha portato via tutto: casa, figlio, marito, madre. Solo chi ha patito la medesima sorte può capire la sua pena. Le persone nella sala non hanno molta voglia di chiacchierare dopo il verdetto, hanno fretta di tornare a casa, sedersi tranquilli, lasciar scorrere il dolore di una ferita aperta, che questa condanna aiuterà per lo meno ad alleviare. Ne è convinto Ramiz Holjan, un signore di 65 anni, che non ha trovato pace dal 16 Dicembre 1992. Era una giornata di sole, suo figlio Admir si era comportato bene a pranzo dai vicini. Aveva voglia di giocare. “Posso uscire?” chiese al padre. “Certo” gli rispose Ramiz. Pochi secondi dopo la casa tremò per un’esplosione. Ramiz e tutti i vicini scesero in strada a vedere ciò che era successo. Non potevano credere ai loro occhi. Il corpo di Amir giaceva a pezzi con quelli di altri tre bambini. Il sangue era dappertutto. L’intero quartiere fu sorpreso da un dolore straziante. Per gente come Ramiz il tempo non è servito a lenire la sofferenza di un trauma che solo a parlarne dà ancora i brividi. Nella foto sbiadita che egli tiene in mano, il figlio Amir ha il maglione azzurro dello stesso colore degli occhi e sorride verso la macchina fotografica. Ci sono altri bambini sullo sfondo, l’immagine è stata scattata probabilmente ad una festa di compleanno, Amir ha dieci anni. La sua vita è finita lì. Quella di Ratko Mladić, 74 anni, soprannominato “il macellaio di Bosnia”, terminerà invece in prigione. “E’ un uomo vecchio, ma la fine della nostra miseria non può che passare per la sua condanna” racconta Ramiz. “Non abbiamo più bisogno di odio. L’odio causa vendetta che di conseguenza porta a nuovo odio” aggiunge mentre s’infila il cappotto e recupera le sue cose. Saluta con un abbraccio gli altri genitori, scende per le scale e s’incammina per le strade dal sole tiepido di Sarajevo, che sembra una giornata come tutte le altre. Nelle televisioni dei bar si vede la faccia di Mladić infuriato durante la sentenza in tribunale, i telegiornali mostrano le persone radunate a Srebrenica a seguire il verdetto e immagini d’archivio dei tempi della guerra, che riportano prepotentemente d’attualità un doloroso passato. Da Belgrado, il presidente della Serbia Aleksandar Vučić non commenta, ma invita i cittadini serbi a guardare al futuro, a mantenere pace e stabilità, a creare una Serbia migliore con il sudore del lavoro. Da Banja Luka, il controverso presidente della Repubblica serba di Bosnia Milorad Dodik definisce Mladić “una leggenda del popolo serbo. Un uomo che investito tutte le sue capacità umane e professionali per difendere il proprio popolo”. Giornali e tv ne descrivono ed esaltano le gesta, cementandone il mito, rispolverando la propaganda dell’orgoglio, accusando il tribunale dell’Aja di accanimento verso i serbi, talvolta negando o sminuendo il genocidio di Srebrenica e molte delle accuse imputate al loro generale. A 15 chilometri da Sarajevo, nella città di Pale, fino al 1998 capitale della Repubblica Srpska e quartiere generale di Ratko Mladić durante la guerra, non ci sono raduni né proteste, ma la gente è contrariata. Qui non ci sono memoriali per le vittime di guerra, ma una scuola è stata intitolata a Radovan Karadžic, leader serbo-bosniaco sentenziato dalla corte dell’Aja a 40 anni di prigione nel 2016, per gli stessi terribili crimini imputati ora a Mladić. “Questa corte ci sta prendendo in giro” racconta Dean Gazivoda, 38 anni, che la guerra l’ha vissuta a Pale da adoloscente. “Guarda la gente qui attorno. Senza di Mladić sarebbero state fatte a pezzi, è stato lui il nostro angelo guardiano”. Secondo Dean la realtà è stata distorta, il numero delle vittime di Srebrenica è stato gonfiato e il tribunale internazionale ha voluto condannare i serbi, assolvendo invece le truppe bosniache, come il generale Naser Oric. “E’ diversa la nostra sofferenza rispetto a quella degli altri?” si chiede Dragovana Novakovic, 52 anni. Suo marito, Petar Novakovic, è stato catturato in prima linea a Renovica nel 1992. “Hanno trovato il suo corpo pieno di ferite di colpi di baionetta sette giorni dopo. Gli erano state tagliate delle dita. E poi siamo noi ad essere accusati di genocidio? E’ diversa la sofferenza dei miei due figli, che non hanno più visto il loro padre tornare?” racconta mentre passeggia con un’amica, diretta a casa, quando si è fatto buio, la temperatura è scesa intorno ai zero gradi e le strade sono oramai deserte. La guerra è terminata nel 1995, ma dopo questa lunga giornata quell’epoca non sembra poi così distante, né per Dragovana Novakovic nella sua casa di Pale, né per Ramiz Holjan a Sarajevo. Entrambi sono convinti che tra le strade della Bosnia di oggi, possano ancora celarsi gli assassini dei loro cari. Lo stesso Mladić fino al 2011 si era rintanato in Vojvodina, a lavorare in una fattoria, protetto e nascosto dai compaesani di un piccolo villaggio e dalla complicità del popolo serbo che tuttora lo ritiene un “eroe nazionale”. Il lasco di tempo lunghissimo passato tra i suoi terribili crimini e questa sentenza, è servito soltanto a lenire in maniera superficiale le ferite di un paese ancora stravolto, fragile e diviso, che ha imparato a vivere il dolore in silenzio, ma non a mettere le basi per andare oltre. I governi dei paesi dell’ex-Yugoslavia hanno fatto dello sviluppo economico e del ravvicinamento all’Europa il centro della loro agenda politica, ma é solo tra i ragazzi più giovani che si sente quella leggerezza necessaria per costruire un futuro di pace tra le differenze. Per tutti gli altri, i fantasmi della guerra sono purtroppo ancora vivi e in giornate come questa, per un istante, essi riaffiorano ancora minacciosi, quasi come se non fosse cambiato nulla.
 





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