L’arte di vivere a Beirut

Scritto per LEFT, 7 Giugno 2019

Beirut. É tra i quartieri di Gemmayzeh e Mar Mikhaël si concentra la vita culturale, notturna, artistica e alternativa della città. Bar, locali, spettacoli, gallerie d’arte, concerti. Il resto della capitale sembra lontanissimo da qui: distanti i campi palestinesi, le zone sunnite, il quartiere di Hezbollah, pur trovandosi a qualche chilometro di distanza soltanto. Qui si pensa ad altro. Le diversità etniche e religiose perdono importanza. Ci si esprime in una lingua ibrida, mescolando l’arabo, il francese e l’inglese. Si sogna un presente e un paese diverso, si respira voglia di creare. La storia di Beirut è anche qui, riflessa nella vita culturale che la anima, nelle espressioni artistiche e architettoniche e nelle “memorie della guerra”, in mezzo alle quali le nuove generazioni sono cresciute. Rimembranze di un passato ingombrante che non ha ancora lasciato spazio al presente. 

Per capire quanto questo passato condizioni il modo di pensare delle le generazioni più giovani e creative, basta passare qualche minuto con Jad El-Khouri, che su questo tema ha realizzato un progetto artistico. “Come paese non abbiamo fatto alcun passo in avanti. Beirut è una città divisa, ognuno è fermo alle proprie posizioni. Nessuno di noi è il benvenuto dall’altra parte della città” afferma il giovane artista. Con una bomboletta spray, il 31enne sta colorando di rosso i segni di proiettile tuttora presenti sui muri di Beirut. “Il mio obiettivo è solo quello di dar loro colore. Di presentarli sotto un altro punto di vista”. Ecco che la vernice rossa su un muro perforato torna a dargli vita, sposta gli orizzonti della percezione, costringe a pensare. Salgo nell’auto di Jad e ci immergiamo nelle strade trafficate della metropoli. “Lo vedi quell’edificio altissimo? Lo si vede da tutta Beirut. Dopo la guerra è diventato un simbolo” mi dice indicando il Burj Al Have, costruito qualche mese prima dell’inizio delle ostilità nel 1974 e poi abbandonato, diventando negli anni una postazione per i cecchini francesi, siriani, israeliani. Al piano inferiore ora è stabile l’esercito libanese. “Ho comprato metri di stoffe colorate, di quelle che si vedono nelle tende dei quartieri poveri della capitale” racconta El-Khouri. “Ne ho messa una su ciascuna finestra di quel mostro. Volevo che da ogni angolo della città, il Burj Al Have, si vedesse pieno di colori”. La sua opera, “la torre del vento”, ha avuto un successo immediato. A Beirut non si parlava d’altro che delle tendine che sventolavano nel palazzo della guerra. “É stato un progetto di attivismo” afferma l’artista, “l’edificio è di proprietà Solidere, la compagnia più potente in Libano, controllata dal presidente. Volevano distruggere il mio lavoro immediatamente”. Grazie all’intervento del Ministero della Cultura, la “torre del vento” è sopravvissuta per tre settimane, periodo breve ma sufficiente a portare Jad e il suo concetto al centro delle cronache. “Da allora il mondo dell’arte si è accorto di me”, mi racconta sorridendo, “e così che le cose hanno iniziato a muoversi”. Ci aveva già provato con l’Holiday Inn a fare rumore Jad El-Khouri, l’hotel fatto a brandelli durante “la battaglia degli alberghi”, costata la vita a oltre mille persone tra il ‘75 e il ‘76. L’edificio con le finestre sventrate, svetta tuttora tra gli edifici moderni della fredda downtown, il quartiere dei soldi completamente ricostruito dopo la guerra, a testimoniare un passato tutt’altro che lontano. Le nuvolette blu di El-Khouri, molto criticate, sono state rimosse immediatamente da quel luogo da sempre considerato intoccabile. Un’altra delle sue opere si trova a pochi passi dalla Moschea Blu, ma è attualmente coperta dal telo enorme di una pubblicità di cellulari. “Pensavo che avrei lasciato Beirut per trasferirmi in Europa per sentirmi più libero, ma ora sento che è qui che il mio lavoro serve davvero”. In una scena artistica ristretta come quella libanese, chiunque porti coraggio e innovazione artistica può diventare fonte di ispirazione per gli altri. 

“Gli artisti si conoscono un pò tutti tra loro, ma le opportunità sono poche” mi spiega uno dei musicisti più promettenti della scena libanese, Anthony Sahyoun, 29 anni. “Viviamo in una bolla, in un’isola a volte felice e a volte meno, circondata da un mondo che ci appare spesso minaccioso” afferma come se recitasse i versi di una poesia. “La mia musica porta generalmente all’introspezione e trasmette un’energia che riflette in qualche modo le nostre frustrazioni geografiche e umane” continua. “Chi viene ai miei concerti cerca di perdersi nel suono, per poi ritrovarsi, per una volta libero dalle strutture opprimenti della società. In questo paese in cui non funziona nulla, la musica ci mantiene vivi, ci fa essere quello che siamo davvero e ci fa sentire parte di qualcosa di più grande” esprime soddisfatto Anthony. I posti per esibirsi non sono molti, ma sono molto frequentati. “Radio Beirut” è uno di questi, un locale che è anche una radio online, frequentando da giovani appassionati di musica e arte. É lì che incontro Romy Matar, tra queste strade “dove ci si può sentire liberi e dove tutti sono benvenuti”. É in questo quartiere che Romy ha realizzato la maggior parte dei suoi grafiti e disegni, che lei definisce “degli atti femministi e di libertà”. Li realizza di notte, accompagnata da qualche amico, per difendersi da chi viene a darle fastidio. “Possono dirmi quello che vogliono, ma non smetterò di fare quello che amo. In questo paese c’è troppa gente che vuole spiegarci come dobbiamo vivere e pensare” sostiene Romy. “La nostra generazione é divisa: da una parte c’è chi ha assorbito passivamente i modelli di pensiero dei loro genitori. Dall’altra ci siamo noi, che abbiamo accumulato troppa rabbia verso il sistema e vorremmo solo cambiamento.” Rabbia e risentimento che poi sono i temi di molti artisti della scena locale. Frustrazione nei confronti del presente, pessimismo nei confronti del futuro. 

“Niente può più essere salvato” mi racconta Bernard, 40 anni, da tutti conosciuto con il pseudonimo “The Art of Boo”. “Dobbiamo dire e far capire alla gente che No!, tutto non sta andando bene. La situazione non è buona. La conversazione non è conclusa”. Bernard ha intrapreso questa missione, con i suoi dipinti e le sue vignette satiriche, pubblicate ogni giorno dal quotidiano “L’Orient Le Jour” e seguite su Instagram da 13 mila persone.  “L’unica cosa che posso fare è scrivere queste vignette. Invitare la gente a pensare, in un paese che è in bancarotta culturale. Per anni ho cercato di cambiare le cose, ma credo che ora lotto soltanto perché queste cose non cambino me.” Una delle sue vignette ritrae un giudice che condanna l’imputato a guidare nel traffico del pomeriggio da Beirut a Joumieh, una città a soli 20km da Beirut. L’imputato reagisce disperato alla condanna. Bernard vive proprio a Joumieh, nella casa di famiglia che fino al 2005 è stata occupata dall’esercito siriano. “Noi libanesi abbiamo molto risentimento verso i siriani, ma il governo sta sfruttando questo sentimento per creare timore nella popolazione e costringere i rifugiati a tornarsene a casa, anche se scappano dallo stesso regime che abbiamo combattuto. La guerra civile è diventata guerra fredda. Il paese potrebbe esplodere da un momento all’altro” afferma preoccupato Bernard, mentre sfila un’altra sigaretta dal pacchetto. Ne ha spenta un’altra pochi secondi fa. Una delle sue vignette più recenti è quella di una barca chiamata “ambizioni”, ancorata al suolo marino da un passaporto enorme che le impedisce di muoversi.“A volte vorrei andarmene in un paese dove l’acqua è pulita, dove l’energia e i trasporti non sono un problema, magari per occuparmi di qualcos’altro” mi racconta. Un’altra delle sue vignette ritrae una giovane coppia, seduta a due passi dal mare. Nella nuvoletta dei loro pensieri la frase: “dove emigreremo quando saremo grandi?”

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