Kos, la rivolta contro i migranti nell’isola delle sbronze

Scritto per PAGINA 99

  • La Commissione europea stanzierà 300 milioni di euro per l’accoglienza dei migranti nei Paesi balcanici. Solo in Grecia, gli sbarchi sono aumentati di 30 volte in un anno. A Kos, paradiso del turismo trash, hanno paralizzato l’economia estiva. E ora i residenti si ribellano all’apertura di un hotspot

NICOLA ZOLIN

KOS. «Che cos’è l’Europa? Non fa nulla, e quando lo fa è in ritardo», sbotta Nikos, titolare del bar “Premiera” che si affaccia sul porto di Kos, isola del Dodecaneso a pochi chilometri dalla costa turca. «L’estate scorsa i migranti erano ovunque. Dormivano sulle aiuole, nei parchi, per strada. Da agosto la nostra stagione è finita. Abbiamo perso il 40% dei turisti. La gente vedeva le immagini degli sbarchi e annullava le prenotazioni. Un disastro». Ora è la scelta di costruire a Kos un hotspot per l’identificazione dei profughi a esasperare gli isolani. «Non staremo zitti», promette Nikos. «Il governo dovrebbe aspettarsi un’esplosione violenta».

Atene ha accelerato la costruzione di questi centri per richiedenti asilo. A febbraio sono entrati in funzione, seppur con qualche intoppo, gli hotspot di Lero, Chio e Samo, che si aggiungono a quello di Lesbo. Le critiche della Commissione europea non si sono fatte attendere, denunciando l’inadeguatezza delle strutture. La realizzazione dell’hotspot di Kos è stata invece ritardata da una serie di proteste popolari supportate dal sindaco del Pasok Giorgos Kyritsis, diventato celebre quest’estate per aver trasferito 1.500 rifugiati nello stadio Antagoras, sotto il sole estivo senza cibo, acqua e medicinali. Né il sindaco né gran parte della popolazione credono che l’hotspot possa scongiurare il caos dell’estate scorsa.

Kos è il luogo natale di Ippocrate, nonché uno dei punti di forza del settore vacanziero in Grecia. Ogni anno nel piccolo aeroporto sbarca più di un milione di visitatori: l’isola attira un turismo di massa, votato all’accoppiata spiaggia-movida, come raccontano i locali concentrati nella zona di via Nafklirou. Discoteche, pub, bar che si contendono i clienti a colpi di offerte su birra e tequila. I casi di cronaca in passato erano relativi alle sbronze di qualche turista olandese o inglese che aveva perso il controllo. La scorsa estate invece sulle spiagge si accumulavano montagne di giubbotti di salvataggio, pezzi di gommone e vecchi abiti abbandonati. I turisti passavano con le loro biciclette increduli davanti al fatiscente Hotel Captain Elias, dove centinaia di rifugiati aspettavano, in condizioni igieniche penose, i documenti per continuare il viaggio.

A maggio 2015, prima dell’emergenza estiva, il Daily Mail ha dato voce ad alcuni turisti che si lamentavano per la presenza dei profughi. Celebre è diventata la frase dei coniugi Servante: «Non ci sederemo in un ristorante davanti a persone che ci guardano mangiare». A fine estate, l’associazione degli albergatori di Kos ha denunciato 170 mila prenotazioni cancellate, il numero più alto di sempre. Allo stesso tempo, la rete di sostegno fondata da Martina Kastiveli si radunava quasi ogni sera per aiutare i rifugiati. «È stata una lotta, ma almeno siamo riusciti a trovare un posto dove potessero dormire», racconta Martina, attivista di Syriza. 

Non è bastato però a raffreddare gli animi della popolazione, che è tornata a ringhiare contro il governo per la costruzione dell’hotspot. Negli ultimi due mesi decine di persone hanno presidiato giorno e notte il luogo scelto per la struttura, affiancati da simpatizzanti del partito di Alba dorata. L’hostpot sta per essere concluso, in un’area diversa da quella prevista in origine, in una vecchia base militare del villaggio di Pyli, ove vige il divieto d’accesso. «Il ministro dell’Interno Kammenos ci ha promesso che non avrebbe costruito un hotspot qui. Ci ha mentito», racconta Iliana Manduku, che vive a un centinaio di metri dalla struttura in cui dovrebbero soggiornare 800 persone. «Ho due figli di 10 e 13 anni. Non me la sentirò di lasciarli giocare liberamente», racconta Iliana. «Per 25 anni ho tenuto la porta di casa aperta, ora non lo farò più. Con i confini chiusi i nordafricani e i pakistani rimarranno bloccati qui. Non vogliamo una prigione a quattro passi da casa».

Neppure l’inverno ha fermato gli arrivi, circa 3 mila da gennaio. In questi mesi i richiedenti asilo sono stati accomodati in alcuni hotel gestiti dall’Unhcr. Il gruppo di volontari “Kos Solidarity” ha fornito beni di prima necessità grazie alle donazioni giunte da tutto il mondo. Secondo Ilias, volontario dell’organizzazione, «l’hotspot risolverà in parte il problema di alloggio, ma il rischio è che molti rimarranno bloccati per lungo tempo nell’isola». I progetti di solidarietà sono più organizzati rispetto all’estate, ma la loro voce è ben più fievole. «L’anno scorso siamo stati i primi ad aiutare», ci tiene a ricordare Iliana. «Siamo una comunità unita, non dei razzisti al soldo di Alba dorata. Qualche mese fa ho visto un cadavere mentre nuotavo, e mi rompe il cuore notare che la stampa dipinge le nostre proteste come azioni squadriste». Sta di fatto che Alba dorata ha fatto breccia tra la popolazione. Alcune figure di spicco del partito neo-nazista hanno visitato l’isola più volte. Il portavoce Ilias Kasidiaris ha esortato gli isolani a lottare.

Panos, giovane di 22 anni, afferma che «Alba dorata è attenta a non esporsi a Kos. Il rischio è che la protesta venga screditata dal coinvolgimento del partito». Panos lavora cinque mesi all’anno come factotum in un hotel del centro e vive a pochi metri dalla zona militare di Pily. Anche lui è preoccupato: «Non sappiamo da dove arriva questa gente. Ho paura che qualcuno possa mettere le mani addosso a mia sorella. Non vogliamo arrivare al punto di doverci fare giustizia da soli».

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