Forse stavolta è la mia occasione


Scritto per LEFT, 7 Marzo 2020. 


“Man, hanno aperto i confini. Migliaia di rifugiati stanno partendo per il confine. Sto pensando se farmi lo zaino e partire”. 28 Febbraio, mattina. A scrivermi è Ahmed, rifugiato siriano arrivato 7 anni fa in Turchia con l’idea di andare in Europa, un’idea svanita nel corso del tempo. “Se andare in Europa significa finire in un campo profughi, preferisco rimanere qui” mi ha sempre detto. Amante della musica, si sta costruendo una carriera nella scena del quartiere asiatico alternativo di Kadikoy, ma da tempo sogna Barcellona: “decine di miei amici vivono lì e sento che forse questa è la mia occasione”. É inquieto e allo stesso tempo su di giri quando raggiungo casa sua. Nonostante il blocco dei social media implementato dal governo di Ankara, in seguito all’uccisione di almeno 33 soldati turchi a Idlib a opera dell’esercito siriano, cerchiamo di capire cosa sta succedendo. Il telefono di Ahmed squilla di continuo. A chiamarlo sono i suoi amici siriani e palestinesi di Istanbul che come lui cercano di farsi un’idea se partire o meno. Nel quartiere storico di Costantinopoli, a Topkapi, già in mattinata sono stati messi a disposizione degli autobus per i rifugiati che vogliono dirigersi al confine, alcuni gratuiti, altri a cifre modiche. Qualche ora dopo saranno già in centinaia a raggiungere il confine di Pazarkule, a qualche chilometro da Edirne. Ahmed è titubante. Io mi organizzo per partire l’indomani. Alla stazione degli autobus di Istanbul, Sabato 29, c’è un via vai di gente diretta alla frontiera. Alcuni si siedono sugli autobus diretti a Edirne senza biglietto per raggiungere il confine. La maggioranza di loro sono afghani, bloccati in Turchia da molto tempo, senza i soldi per permettersi una barca per la Grecia con i trafficanti. Incontro un giovane iraniano, Ali, da sette anni vive in Turchia ma ora vuole partire. “Quando mi ricapita un’occasione del genere?” Il viaggio da Istanbul a Edirne dura circa tre ore. Quando scendo, due ragazzi turchi stanno dicendo a tutti “Yunan, Yunan” (il nome della Grecia, in turco e in arabo). Li osservo raggiungere gruppi di rifugiati dispersi qua e là nel piazzale della stazione. Ci sono afghani Hazara, siriani, palestinesi. “Volete andare in Grecia? Venite con me”. Quando il gruppo di Hazara sparisce in un minibus, salto su un taxi verso la frontiera. Incontro diversi posti di blocco, ma la situazione è surreale: la polizia turca sta facendo passare sia i rifugiati che i giornalisti senza fare troppe domande. Durante il tragitto incontriamo centinaia di persone, con uno zainetto in spalla con lo stretto necessario, diretti alla frontiera. Sono convinti che oggi sia il giorno buono per entrare in Europa, ma una volta giunto a quella che è stata definita la “no man’s land”, il confine tra Pazarkule e Kastanies, mi rendo conto che questa non è che un’illusione. Ad aspettarli ci sono barriere di ferro e filo spinato arrotolato e soldati greci armati posizionati a circa venti metri l’uno dall’altro, che controllano che nessuno provi a sfondare la frontiera. Nei momenti di maggior tensione, quando gruppi di rifugiati provano a forzare la recinzione, l’esercito risponde sparando lacrimogeni. L’aria è irrespirabile. Molti rifugiati portano la mascherina, preoccupati per le continue notizie sul corona virus. Molta gente è già esausta e sta raccogliendo legna per accendere dei fuochi. “Hai un pezzo di torta?” mi chiede un ragazzo afghano. Mi racconta di aver vissuto per tre anni in Turchia e di aver viaggiato verso il confine dopo aver saputo che il confine era aperto. “Ma quando ci lasceranno passare?” mi chiede. Ho appena letto che il governo greco ha appena confermato l’arrivo di rinforzi armati armati al confine, per evitare in tutti i modi che qualcuno voglia forzare il blocco di polizia. Condivido con lui questa informazione, ma è praticamente impossibile spegnere il sogno di molte di queste persone, che in Turchia si sono sempre sentite di passaggio e mai integrate, vivendo al contrario svariati episodi di razzismo. Ci sono ragazzi e ragazze provenienti dalla Somalia, dall’Iraq, dalla Palestina, dal Pakistan, dal Marocco, dalla Siria. Sono tutti bloccati in questa terra di nessuno, nonostante le autorità turche diano letteralmente i numeri, comunicando che già 36.776 rifugiati e migranti hanno lasciato la Turchia verso la Grecia. Al confine i servizi umanitari sono pressoché nulli: quando arriva del cibo la gente si ammassa e finisce a lottare pur di prendere un panino. Di tanto in tanto arriva un furgoncino, o un motorino, di privati che vendono lo stretto necessario a chi ne ha bisogno: cibo, sigarette. La mezzaluna rossa turca distribuisce acqua e tè. In questa situazione di stallo alcuni rifugiati sembrano perdere le speranze. Alcuni, delusi, preferiscono prendere un altro autobus e tornare da dove sono arrivati. Salendo su uno di questi autobus, Fatima, una ragazza palestinese, prova a scherzare: “propria bella questa Grecia”. Altri invece cercano di incitare la gente a forzare il confine: “siamo in tantissimi, forziamo questo confine e entriamo tutti in Europa” grida un ragazzo iracheno calpestando il filo spinato. L’indomani qualcuno riuscirà a forzare il confine di terra e a postare il video dell’impresa su Twitter, ma saranno arrestati poco dopo dalla polizia greca e rimandati in Turchia. Il governo turco nel frattempo continua a dare i numeri, affermando prima che 70.000 e poi 100.000 persone hanno attraversato la frontiera. Su Twitter Lunedì mattina diventa virale il video di un rifugiato siriano colpito alla gola e ucciso dai soldati greci. Jenan Moussa, giornalista della TV araba Al-Aan TV, ricostruisce la storia: il suo nome è Mohammed Al Arab, ha lasciato Aleppo 5 anni fa durante la guerra e lavorava a Istanbul in un negozio di scarpe. Aveva lasciato Istanbul la notte precedente al decesso con l’idea di cominciare una nuova vita. Per le autorità greche, il video è “fake news”. Quando ritorno a Istanbul, il mio amico Ahmed è ancora combattuto se partire o meno e rimane incollato al telefono per seguire gli sviluppi della situazione. “Che ne dici di fare una corsa giù nel lungomare?” mi chiede. “Per ora” continua, “credo che continuerò a vivere la mia vita qui”.



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