Chi vuole chi? Il paradosso dell’accoglienza

Scritto per Left, 27 Agosto 2016. Como.

L’accoglienza e la solidarietà non vanno a braccetto con la “dolce vita” di Capalbio, il borgo estivo tradizionalmente frequentato da intellettuali e benpensanti di una presunta sinistra, che si sono schierati la settimana scorsa contro il progetto di accogliere 50 migranti in quattro villette di una zona residenziale del centro medievale. Non si tratta soltanto di una protesta, ma di una petizione e di due ricorsi presentati al Tar, che per ora bloccheranno il trasferimento dei migranti, in attesa della prima udienza fissata per il 3 Novembre. Il sindaco piddino Luigi Bellumori ha fatto scudo alle critiche, affermando che le villette sono a due passi da una scuola, che la zona potrebbe diventare un piccolo ghetto e che a Capalbio, d’inverno, non ci sono forze di polizia per regolare l’ordine pubblico. Salvo poi far pubblicare sul sito del Comune un avviso in cui manifesta “l’intenzione di promuovere con la massima partecipazione l’accoglienza e l’integrazione dei migranti”. I borghesi vacanzieri intellettualoidi, sostenitori di idee e di valori di sinistra soltanto a chiacchiere, sono preoccupati che la presenza dei migranti possa danneggiare il turismo e la tranquillità del luogo, o meglio, la loro tranquillità nel luogo. Meglio quindi, in questa visione delle cose, che sia qualche altro paesello sfigato a prendersi carico di queste anime in transito. E di paesini di questo tipo, che davvero potrebbero lamentarsi, in Italia non ne mancano di certo. Come Cona, in provincia di Venezia, un comune di poco meno di tremila persone che da un giorno all’altro si è trovato a convivere con oltre 600 migranti, tra il malcontento della cittadinanza. Un esempio concreto del pressappochismo e della mancanza di strategie utilizzate per gestire questa situazione delicata, che non è un’emergenza, ma una situazione che necessita pianificazione. Esempi virtuosi di accoglienza ci sono stati, come nei paesini della Locride in Calabria, che sull’onda del progetto del sindaco di Riace Domenico Lucano, hanno fatto dell’accoglienza una forma di sopravvivenza, permettendo ai migranti di ripopolare vecchi borghi abbandonati e riuscendo a ricreare qualche posto di lavoro per la popolazione locale. Esempi isolati, che fanno da contraltare ad una schizofrenia in aumento nel nostro paese, ad una lotta tra miserabili, tra chi vuole difendere quel poco che ancora gli è rimasto e quelle povere anime, in fuga da conflitti, discriminazioni o condizioni di vita infelici. In Sicilia, nei pressi del centro di accoglienza di San Michele di Ganzaria, nel Calatino, quattro ragazzi egiziani sono stati pestati a sangue, sabato scorso, da tra tre giovani del vicino comune di san Cono. A Bondena, nel ferrarese, il sindaco leghista ha buttato benzina sul fuoco, quasi minacciando ripercussioni per quei cittadini che decidessero di accogliere “finti profughi” in casa loro. L’assessore allo sviluppo economico della Regione Veneto, Roberto Marcato, è andato a Capalbio per lanciare la sua provocazione, dichiarando di voler esportare il modello urbanistico “Clandestini Free Zone” al resto d’Italia. Questo clima di tensione coincide con un aumento degli arrivi. Con la chiusura dei confini lungo la rotta balcanica e l’accordo tra la Turchia e l’UE, il flusso migratorio é tornato a pesare principalmente sull’Italia, con numeri che in Luglio hanno superato quelli dell’anno scorso. E pensare che il sistema degli hotspot era stato pensato per regolare la situazione degli sbarchi, per far si che i cosiddetti migranti economici venissero al più presto deportati e che gli aventi diritto asilo potessero essere distribuiti tra i diversi paesi europei. Ma il programma di ricollocamento, designato nel Settembre scorso per trasferire 160.000 persone da Italia e Grecia agli altri paesi dell’Unione nel corso di due anni, è miseramente fallito a causa degli egoismi degli stati del vecchio continente. 3.977 persone sono state ricollocate in totale finora: 961 dall’Italia, 3.016 dalla Grecia, il 2,5% dell’obiettivo dichiarato. Le norme del regolamento di Dublino, che impediscono a chi viene registrato con le impronte digitali in un paese, di richiedere asilo in un altro stato dell’UE, rendono la situazione ancor più critica per l’Italia. La Germania ha sospeso il regolamento nei confronti dei siriani, ma in Italia i migranti arrivano principalmente da Nigeria (il 20%), Eritrea (il 12%), Gambia, Costa d’Avorio, Sudan, Guinea (il 7% per ciascun paese), Somalia, Mali, Senegal (il 5% per ciascun paese). Migranti che nessun paese vuole accollarsi. Per evitare che anche l’Italia, come la Grecia questa primavera, diventi a sua volta “un magazzino di anime”, il ministro della giustizia Orlando ha anticipato un disegno di legge per cambiare le regole del servizio di asilo. La proposta del ministro prevede di velocizzare i tempi di risposta alle richieste di protezione, per snellire il lavoro dei tribunali, cancellando il diritto di appello e l’udienza per il richiedente. Secondo le procedure attuali, i tempi di risposta prevedono un’attesa di circa 12 mesi, che possono diventare 24, in caso di ricorso. Nel 2016, circa il 60% delle domande d’asilo sono state rigettate e quasi tutti i migranti hanno fatto ricorso in appello. La nuova norma risolverebbe molti problemi logistici, danneggiando però i migranti stessi, che potrebbero essere respinti ancor prima di ottenere le informazioni adeguate sui loro diritti di protezione internazionale, soprattutto quando le registrazioni avvengono al di fuori del sistema degli hotspot. Il rischio è che le deportazioni possano avvenire più rapidamente delle capacità di avvocati e ONG di difendere i diritti di chi, per legge, può ottenere lo status di rifugiato. Nell’immaginario dei migranti, l’Italia è principalmente un paese di passaggio, che spesso diventa una trappola per chi si fa stampare le proprie impronte digitali. Il viaggio verso l’Europa del nord è diventato inoltre sempre più complesso, anche a causa degli episodi di terrorismo che hanno scosso l’Europa nei mesi scorsi. Da mesi fanno discutere i blocchi alle frontiere di Ventimiglia e del Brennero, ma é Como, attualmente, ad essere il confine più caldo della penisola. Da circa un mese qualche centinaio di migranti è accampato nel parco di fronte alla stazione di San Giovanni, in attesa di attraversare il confine e di raggiungere la Svizzera. Persone che vengono principalmente dal Corno d’Africa e che sognano l’Europa del nord, nonostante le frontiere, a Chiasso, siano state chiuse. Per chi viaggia verso nord, Como è diventato un punto di ritrovo, una piccola Idomeni, dove ottenere informazioni e cercare una via d’uscita dall’Italia, nascondendosi nei treni e cercando sentieri di montagna, nonostante l’attenta vigilanza della polizia elvetica, che impiega anche droni a raggi infrarossi per mantenere l’intera frontiera sotto osservazione. Nel parco davanti alla stazione c’è chi racconta di aver già provato ad attraversare il confine 4 o 5 volte, senza successo. C’è chi racconta di essere arrivato a Chiasso o Zurigo e di essere stato rispedito indietro. C’è Abdo, sudanese, 23 anni, che racconta di voler arrivare in Germania per continuare i suoi studi. C’è Hanok, ragazzo eritreo di 17 anni, arrivato in Italia da solo, pagando ai trafficanti cifre superiori ai 2000 euro. “Nel mio paese non c’è libertà” racconta, “non potevo rimanere. La mia famiglia ha messo insieme un sacco di soldi per farmi partire”. Ha registrato le sue impronte all’hotspot di Taranto, ma il suo desiderio è di andare in Germania. C’è Mohammed Ali, che in Italia è sbarcato nel lontano 2007 dalla Somalia. Ha vissuto in Svezia, Finlandia, Olanda e Germania, ma ad un certo punto è sempre stato rispedito indietro secondo il regolamento di Dublino. Ora vuole raggiungere la Svizzera, insieme a tre connazionali che l’hanno raggiunto di recente. Ci sono donne e bambini che vengono dall’Etiopia. Dicono di voler continuare il viaggio, ma dopo esser stati respinti varie volte, non hanno idea di ciò che sarà di loro. Aspettano, sperando che la situazione al confine possa cambiare. Caritas, Croce Rossa e il gruppo di attivisti WelCom si danno da fare per offrire loro un presente più dignitoso, organizzando cibo e acqua, fornendo loro informazioni sul viaggio e sui loro diritti. Ma a Settembre il parco di fronte alla stazione verrà sgomberato. Trecento di questi migranti saranno trasferiti in moduli abitativi in un’area comunale nei pressi del cimitero, gestiti dalla Croce Rossa, a circa un chilometro della stazione. Altri finiranno a bordo di autobus diretti ad altre strutture nel sud d’Italia. Ma la maggior parte di queste persone ancora non riesce a guardare al futuro. Come racconta Henok: “finché ci sarà speranza di attraversare il confine, rimarrò qui, e ci proverò in tutti i modi possibili”. 

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